Massimo Zamboni – La mia patria attuale (Universal Music, 2022)

Sono passati dodici anni da “L’estinzione di un colloquio amoroso”, ultimo disco solista di Massimo Zamboni e in questo arco di tempo lo abbiamo scoperto impegnato in diversi progetti, tra cui le celebrazioni dei gloriosi giorni con i CCCP con il live “30 anni di ortodossia - Reggio Emilia 29 agosto 2012” , “Solo una terapia: dai CCCP all'Estinzione” con Angela Baraldi, e i pregevoli “1917-2017 Un secolo di CCCP” del 2018 e “Un'infinita compressione precede lo scoppio”, ancora con Angela Baraldi. A questi dischi, vanno aggiunti i diversi libri messi in fila da “L'eco di uno sparo” a “Nessuna voce dentro - un'estate a Berlino Ovest” per giungere a “La Macchina Mongolica” con la figlia Caterina accompagnato dal film e dal disco strumentale omonimo, e il più recente “La trionferà” dello scorso anno. Insomma, l’ex CCCP e C.S.I. non è stato affatto fermo, ed ora ritorna sulla scena in una veste inedita con “La mia patria attuale”, album dal titolo programmatico in cui ha raccolto dieci brani, di cui nove inediti e la versione in studio di “Ora ancora”, già proposta dal vivo nel tour del già citato “30 anni di ortodossia” e che, mai come ora, suona come un racconto lucido e spietato dei tempi attuali. Ad aprire il disco è “Gli altri e il mare” (“Cuore mio, c’è qualcosa che mi opprime in queste onde), dove una malinconica chitarra acustica è dinamizzata quasi esclusivamente dal crescendo ritmico delle percussioni. Di tutt’altro tenore, invece, “Canto degli sciagurati” (“L’onda immensa del popolo minuto chiama la tempesta e l’edificio crollò. Sacra la vittoria delle moltitudini, non temo ciò che viene, temo chi è venuto già”): qui l’andamento si fa più nervoso, a tratti muscolare, sottolineato da una sezione ritmica incessante e squarciato da una splendida chitarra grattugiata che ci riporta dritto ai tempi dei C.S.I. e dai frenetici contrappunti della sezione fiati. “Ora ancora” (“Ancora, dovremo tutti vivere in ostaggio, ancora dovremo tutti smettere le intese. Ancora, sentirci uguali per i torti, ancora sentirci uguali per le offese”) è costruita sull’incastro fra chitarre acustiche, con la ritmica che tesse toccanti arpeggi e tenui strumming e la solista a ricamare dolenti fraseggi. L’album prosegue nella sua alternanza atmosferica con “Italia chi amò” (“Mano sul petto, pronto alla morte un farabutto con la consorte. Cosa diceva l’urlo? Italia chi amò?”), pezzo dai colori elettricamente scuri, inacidito da una tetra chitarra elettrica, cui fa da contraltare un pattern di batteria compassato e quasi melmoso. Giro di boa è “Il nemico” (“Credi, padre, il giorno nuovo porterà condono, o porta- padre mio- solo tormento?”), tetra ballad che si snoda lungo nervosismi elettrici di chitarra e strappi infuocati di tastiere. Con “Tira ovunque un’aria sconsolata” (“Ma verrà il tempo che germina il grano, s’aprirà un solco sui volti infelici, verrà quel tempo, ci sembrerà strano di essere stati l’un l’altro nemici”) si torna a colori più acusticamente tenui, scanditi dagli scambi di due chitarre acustiche, fra arpeggi e fraseggi, con un tamburello lontano a far da unico sostegno ritmico. “Nove ore” (“Troppi incroci confondono i segnali e le tracce che avrei, troppe luci nascondono le facce, e l’eco di voci nei guai, in questi anni”) segna l’ennesimo, ben riuscito, incontro fra una chitarra acustica che sostiene la ritmica ed una elettrica che scava, acida, nelle viscere della canzone, addolcita dai contrappunti della sezione fiati e dilatata da un tappeto di tastiere. La title- track (“Onesta per metà e per metà per male, paese che nel cambio resta uguale”) vede un cupo pianoforte a sostenerne l’architettura, con un basso colloso a muoversi quasi sottopelle e le svisature di una chitarra elettrica con e- bow a creare tensione. Penultimo episodio dell’album è “Fermamente, collettivamente” (“Fermamente, collettivamente abbiamo cumulato impegni, e intanto il sole rosso, nel tramonto, digradava”), toccante e disilluso racconto delle macerie di un mondo andato, poggiato su un denso tappeto di tastiere, con i ricami valzereggianti dei fiati a dar colore. A chiudere il lavoro è “Il modo emiliano di portare il pianto” (O se almeno le campane suonassero alle ore sbagliate, perdendo controllo e ritegno, e le fanfare dalle torri sventrate annunciassero la lenta caduta degli uomini buoni”), intenso recitato costruito su un acquoso muro di sintetizzatori e quasi abbattuto, nei ritornelli, dai toni quasi orchestrali della sezione fiati. In conclusione, forse per la prima volta Zamboni (coadiuvato dall’ottimo “Asso” Stefana, qui in veste di musicista e produttore, e da amici di lunga data come Gigi Cavalli Cocchi, Simone Beneventi, Erik Montanari e Cristiano Roversi, oltre che da Andrea Lamacchia, Alessandro Pipino e dai membri del Concerto a fiato L’Usignolo) si “traveste” da cantautore vero, mettendo la sua voce in primo piano, e regalandoci una prova genuinamente cruda, nel suo essere incazzata e disillusa cartina tornasole dei nostri tempi. 


Giuseppe Provenzano

Posta un commento

Nuova Vecchia