La musica non ha mai rispettato i confini. Per la musica le frontiere non sono che acquarelli sbiaditi. I mandriani slovacchi dei Monti Tatra si sono innamorati delle cameriere di lingua ungherese e corteggiandole hanno portato nei remoti villaggi le rapsodiche ballate che avevano ascoltato dagli anziani. Hanno cantato delle loro anatre e delle pene dei propri cuori sperando di far breccia in quelli delle ragazze. Musicisti gitani hanno soffiato note rumene mescolandole con suoni sassoni dentro strumenti dal passaporto turco durante matrimoni ebraici nella Transilvania rurale ballando infine una briul avvinghiati alle cinghie dei pantaloni. Senza prima mancare di intonare però due melodie dello struggimento. “Aji tu yorma?” (Dove sei, cara?) canzone d’amore nuziale su testo di Hizghil Avshalumov, il poeta russo che scriveva in lingua juhuri, una forma di persiano parlato dagli ebrei del Daghestan, sulle montagne del Caucaso. Lui vi era nato e di quella zona fu anche attivo folklorista, nel 1940 pubblicò addirittura un dizionario russo-juhuri ma, nonostante ciò, purtroppo oggi è una lingua in via di estinzione. Questa melodia è stata ripresa in epoca recente da musicisti legati al jazz, quali Tim Sparks (in Tanz, 2000) o Amos Hoffman/Noam Lemish Quartet (in Pardes, 2018). La seconda canzone in onore della sposa è “Erev shel shoshanin” (Notte delle Rose). Ha stregato l’ungherese Kálmán Balogh ma, prima di lui, tanti musicisti di ogni confine: l’americano Harry Belafonte, la sudafricana Miriam Makeba, la greca Nana Mouskouri o il chitarrista di folk inglese Martin Simpson, senza dimenticare la rock band yugoslava Zlatko & DAH. Le danze mostrano l’influenza turca lungo la strada per l’ovest che percorsero i migranti zingari attraversando Anatolia e Tracia già dal IX secolo.
Alcuni arrivavano da Edirne, nella Marmara, città di frontiera con Bulgaria e Grecia, antica capitale dell’Impero Ottomano, portavano sulle spalle i tamburi davul, la zurna a doppia canna e il bağlama, lo strumento più antico e popolare con la sua ciotola di legno che non si sa mai se è di gelso, ginepro, faggio, abete o noce. Nelle notti balcaniche mahala o zeybek, con il loro twist orientale fanno alzare dalle sedie perfino i più timidi o riottosi convitati mentre le voci, abbandonando sé stesse, condividono i destini rimando tra loro ben oltre ogni immaginabile differenza linguistica. Mari Mariko, la bella bulgara, fa ancora girare la testa a tutti mentre il mantello di mistero che avvolge le melodie transilvaniche ha l’età del buio e il potere di trasformare le corde in binari e le note in cavalli. Il suono di Liszt e Bach si aggroviglia, fa capolino qua e là negli spartiti d’aria dei musicisti zingari in mezzo alle nevi di confine delle Montagne di Csitar. Brahms ha pescato a piene reti dalle danze ungheresi per i suoi celebrati rondò o piano quartet, Satie ha raccolto una melodia archeologica dell’età del bronzo direttamente dalle mani dei greci di Cnosso, Tzigane di Ravel è un alto tradimento della musica zingara. Una brass bands suona da due giorni e due notti in una processione di tromboni, clarinetti, trombe, tube, corni fino ad intonare quella che assomiglia ad una corale stonata di Bach, in un funerale che però è un matrimonio. Nemmeno i confini sacri sono rispettati nella cultura zingara, perché “basta cambiare una nota e la disperazione diventa felicità”. Anche la musica operistica di Mozart si è trovata a trarre ispirazione da elementi orientali contenendo scale esotiche, spaventosi tamburi o ritmi giannizzeri.
Tags:
Memoria