Certe sue ouverture possiedono una malinconia che si avvicina di parecchio all’ “anima orientale”. In sirba e hora le parole folk, jazz o popolare perdono ogni significato. Una scalcinata brass band moldava incontra la Rembetika proveniente dalle bettole di hascish del Pireo o forse di Izmir, sulla costa turca dell'Egeo. Il clarinetto par soffiare sui visi la tiepida aria di brezza del quartiere Kalamış nella parte asiatica di Istanbul, porticciolo sulle rive del mare di Marmara, poi improvvisamente oscilla confuso attraverso le corde, inciampa e va a finire in una tarantella delirante. Quando si alza e tenta di tornare indietro perde la strada e si ritrova nel quartiere di Beyoğlu, a nord del Corno d’Oro, antico possedimento della colonia della Repubblica Marinara di Genova. Davanti al mare di Santa Sofia i canti lamentosi delle sinagoghe non hanno mai previsto guerre sante o pulizie etniche. In un attimo è la giga irlandese “Thunderhead”, suonata in 7/8 come spesso è la musica dei Balcani, ad avvicinare le due estremità dell’Europa. Intanto all’angolo, un vecchio zingaro senza denti batte su uno scalcinato zimbalon primitivo, con bacchette rivestite di cotone, felicemente ignorante che il vocabolo latino “psalterium” in greco significhi “pizzicare con le dita”. Lo suo strumento è assai conosciuto in Ucraina e in terra magiara, tanto da essere sovente chiamato il “salterio ungherese”. Ha ammaliato tanti compositori del Novecento come Stravinskij, Debussy, Stockhausen ed esiste in molte forme da secoli, dalla Moravia alla Bulgaria fin’anche sugli Appalachi, la catena montuosa nella parte orientale dell'America del Nord.
Quello che ascoltiamo quasi sempre oggi nei dischi è stato sviluppato nella seconda metà del XIX secolo, partendo dalle innovazioni di Josef Schunda. L’Ungheria è l’unica terra al mondo in grado di offrire una laurea in cimbalom. Nel mondo arabo questa cetra ipnotica trapezoidale, con cori di settantotto corde tesi su un piano armonico di pergamena, è invece chiamata qanun. Verso la fine del 1800 lo veneravano come strumento sacro da quando nel corso di un funerale riuscì a far resuscitare il morto. A quei tempi solamente alle donne era permesso suonarlo. Anche l’ebreo Béla Bartók lo amava, lui che di confini ne ha attraversati tanti, sia fisici che metafisici, per andare alla ricerca delle arcaiche fonti popolari in Algeria e Anatolia e per superare il divario tra musica “popolare” e “colta”. Prima del suo arrivo l’asimmetria della prima veniva considerata innaturale dalla supponenza di tutto il mondo accademico. I confini cambiano: se nascesse oggi Bartók non sarebbe più neanche di nazionalità ungherese com’è riportato nei libri, bensì rumena. Ma per lui certo non cambierebbe niente. Anche hora e doina, il cosiddetto “blues europeo” non sono cambiate. Sono rimaste quel che erano in una terra dove Ceaușescu con ruspe, bullzozer, “canali della morte” o “navi di cartone” annientava zingari e transilvani e proibiva ai musicologi di recarsi a fare ricerche nei villaggi csángó durante la sua delirante dittatura.
Dietro l’angolo, sorprendenti similitudini tra tempi e intenzioni della musica da danza curda e di quella bretone sembrano innate. Come pure la melodia macedone che narra la storia di Sadila Jana, ragazza intenta a piantare il basilico bianco, così simile a “An Hini Dilezet” che i quasi cinquecento abitanti di Lanrivain, paese rurale del Centro-Bretagna, dipartimento delle Côtes-d'Armor, utilizzano per danzare l’an-dro in riva al lago di Kerné Uhel. Oggi la vecchia Bagdad Kemper la si incontra sulla strada tra Sarajevo e Belgrado mentre la giovane Bagad Penhars, che prende il nome da un quartiere di Kemper, la si può ascoltare sulle rive del Bosforo. I loro costumi sono tutti ricamati glazik oro, rosso, arancio e verde su grigio e blù. Mai nessuna guardia, nessun fossato o filo spinato ha potuto impedire alla musica di passare oltre. Nessun esercito è riuscito a fermare la marcia delle canzoni lungo gli oscuri e incontrollati meandri della storia, nemmeno quello nazista. Neppure quegli ingegneri che hanno messo le loro conoscenze per costruire camere a gas, quei medici e quelle infermiere che hanno messo i loro studi per torturare, assassinare e bruciare, quei diplomati, istruiti, qualificati che hanno messo la loro esperienza al servizio dell’orrore. Perfino nei campi di concentramento, su carta igienica o unta da croste di formaggio, non solo adulti ma anche bambini di dieci anni hanno composto canzoni dall’incrollabile speranza, come “Shtiler, Shtiler”. Nel Pogrom del novembre 1938, le “camicie brune” credevano di aver distrutto per sempre la Semer Record quando irruppero nella libreria ebraica berlinese di Hirsch Lewin e frantumato 4.500 dischi e relative matrici. Lewin fu inviato nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Nella libreria si parlava yiddish, tedesco e russo e la gente trovava di tutto, dalle opere religiose ai libri di storia, dagli scialli da preghiera alle candele dello Shabbat. Ma soprattutto c’erano i dischi fonografici. Ma gli eserciti possono sparire nel volgere di una stagione e le canzoni perpetuano la loro vita e il loro moto lungo i secoli. Gli ebrei sefarditi hanno lasciato uno straordinario patrimonio di canzoni su ogni attività della giornata, basti
pensare alla gustosa “Los guisados de la berenjena” che riporta le sette ricette per la preparazione di un piatto di melanzane: a tocchetti, spiedino, ripiene di riso e mandorle, gratinate, in salsa, in insalata con olive o dolci al forno perchè “ai tavoli delle feste brilla sempre anche la più misera tovaglia”. (1) Gli ebrei ashkenaziti hanno attraversato i confini di tre imperi: austro-ungarico, zarista e ottomano. Prima dei pogrom di Stalin si ascoltavano i cantanti tenori a Volinia come gli stornellisti di strada a Odessa. Là c’era una via ebraica che si chiamava Limonchiki dove si esibiva la leggendaria big band di Leonid Ulyasov, forse il primo a formare cento anni fa un gruppo sovietico di jazz. Ma ad Odessa è stata composta anche “O’ sole mio”, ispirata da un’alba sul Mar Nero e dedicata alla nobildonna di Oleggio, Anna Maria Vignati Mazza. La canzone divenne famosa laggiù ben prima di esserlo a Napoli. D’altronde la colonia italiana contava ben tremila persone ad Odessa a metà del 1800 ed erano quasi tutti meridionali, furono proprio loro a farla diventare la più europea e mediterranea città dell’immenso impero russo. Alcuni erano grandi attori teatrali, tra cui “la divina” Eleonora Duse. Odessa, la città di frontiera tra est e ovest, affonda le radici nell’Italia del sud e l’italiano era la lingua ufficiale di tutta la sua attività economica dell’epoca. I prezzi delle merci, i passaporti e perfino i cartelli stradali erano scritti in italiano. Ebrei e zingari hanno spartito destini nell’Europa sud-orientale, se così tanti di loro furono musicisti era anche perché in molti paesi cristiani e musulmani, erano considerati soggetti interdetti per legge ad altre professioni.
La storia li ha avvinghiati anche nella crudeltà estrema dei lager, rispetto alla Shoah quello di Rom e Sinti è diventato uno sterminio rimosso, che loro chiamano “Samudarien” (Divoramento). Ne furono assassinati 500.000, che rappresentano un numero enorme per un popolo così esiguo e disperso in tutta Europa. Un esempio di questa straordinaria ibridazione musicale è “But Fakunge” (Congelavamo), melodia dei Romalovara slovacchi, probabilmente composta nel Zigeunerlager di Auschwitz-Birkenau e ripresa da violinisti ebrei “Congelavamo a lungo, cuocevamo tanto pane, ho delle bellissime ragazze, le ho conosciute, puoi picchiarmi quanto vuoi ma troverò comunque la mia strada”. Anche il catalogo Semer oggi è stato quasi interamente ricostruito, il Museo ebraico di Berlino ha commissionato nel 2012 a un gruppo di musicisti di rieseguire queste opere antiche. A est la cultura ebrea oramai non è che un’ombra della propria storia e del proprio patrimonio; tuttavia, la tradizione popolare delle kapelyes ancora resiste. Queste orchestrine hanno sovente nome e carattere familiare, stili locali e profumi di pálinka, il liquore di prugna ungherese, anch’esso fatto in casa. A est il volume è passione, il suono è vita, il rumore è intensità. Può capitare di vedere il miglior suonatore di flauto moldavo accanto al miglior distillatore di acquavite ungherese.
Il tempo cambia i confini: all’interno del regno austro-ungarico poco più di un secolo fa c’era la Transilvania che oggi è in Romania, la Bucovina che è per metà in Ucraina, la Galizia che è regione polacco-russa e il Trentino-Alto Adige che è italiano, forse un giorno lontano ogni “confine” non sarà neppure un ricordo. Di sicuro però le musiche saranno ancora in giro ovunque e quella brutta parola non l’avranno mai conosciuta nel loro vocabolario. Nonostante tutti i veti e divieti dei vari imperatori, papi o zar succedutesi e la perfidia dei tanti per cui Georges Brassens scrisse un giorno la sua mirabile “Ballade des gens qui sont nés quelque part”.
Flavio Poltronieri
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(1) in tema di “confini” è consigliata la visione di questa recente interpretazione online della canzone, ad opera di musicisti e cantanti di Spagna, Guatemala, Costarica, Panama e Colombia.
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