Come va la sindemia? “Be Patient” rispondono i tredici musicisti nella prima delle nove tracce di “We’re OK”, quinto album dell’OTPMD, fondata a Ginevra nel 2006 dal contrabbassista Vincent Bertholet. Il loro penultimo album, “Sauvage Formes”, risale a tre anni fa e, nel frattempo, hanno macinato elettrizzanti concerti dal vivo con una formazione a fisarmonica che, da sei, è arrivata fino a quattordici musicisti e a raddoppiare contrabbassi, chitarre (Hervé Eymard, Maël Salètes), e marimba, tratto distintivo che attualmente vede Aida Diop e Anne Cardinaud (o Elena Beder) brillanti protagoniste.
“Ogni volta, cerco di trovare nuove idee o di esplorare territori inesplorati. Anche se è cambiato molto, ha cambiato molto i musicisti. Cerco di mescolare un massimo di influenze perché ascolto un sacco di cose diverse”, spiega Vincent Bertholet.
L’ensemble comprende anche archi (il violoncello di Naomi Mabanda, i violini di Jo Burke e Liz Moscarola, anche cantante, così come la violista Aby Vulliamy) e fiati (il sax alto di Thomas Levier e gli ottoni di Gilles Poizat e Benoît Giffard). A sospingere questo magma sonoro ci sono la batteria di Gabriel Valtchev e le percussioni di Guillaume Lantonnet.
“Be Patient” parte dal silenzio e da un suono d’archi lontano, un bordone che si prendono tempo di far crescere per poi portarlo piano verso modulazioni e nuove pulsazioni con l’innesto del contrabbasso e di un bel dialogo contrappuntistico che attende la metà del brano, quasi tre minuti, prima di aprire la porta alla scansione terzinata della batteria che prova a sfuggire, insieme a voce e marimba, alla quella binaria ed ossessiva di suoni elettronici e metallici. Con il successivo “Empty Skies” prevale la scansione binaria ed ossessiva, balzo in zona kraut-rock, con brevi inserti in cui “respirano” marimba o contrabbasso, mentre chitarre e percussioni saturano lo spazio intorno al testo, declamato senza fretta, preludio al più cupo e frenetico “So Many Things (To Feel Guilty About)” che introduce la dimensione corale nella parte vocale per poi far emergere i diversi colori percussivi e la voce di Aby Vulliamy che declama la lista delle cose per cui sentirsi in colpa, gli innumerevoli doppi-vincoli che impastano la nostra vita individuale e collettiva insieme ad un crescendo di fiati, interrotti opportunamente dall’ariosità della marimba a segnalare zone di luce in mezzo al lamento collettivo. Il cambio di passo arriva con la ballata breve e minimalista “Blabber”, sospesa fra le pulsazioni di marimba e percussioni e i ricami degli archi che tessono un filo rosso anche con i successivi “We Can Can We”, sorta di sincretismo fra Michael Nyman e Tony Allen, e l’ipnotica “Flux”, con un ripetitivo invito (“make it move”) innestato su un tempo immobile, poi infiltrato dalle propulsive marimba e percussioni che qui trovano un breve spazio solista prima di un inserto narrativo in francese che fa un po’ il giro del mondo a dichiarare l’anima nomade del gruppo e a richiamare la parte più acida e dell’ensemble. I tre brani in chiusura riaffermano la natura orgogliosamente eclettica della scaletta, un po’ come certi onnivori lavori di Daniele Sepe. I due minuti di “Connected” fermano ancora una volta la pulsazione e offrono atmosfere rarefatte, giusto il tempo per far detonare “Beginning”, uno dei brani che meglio rende la potenza orchestrale e corale del gruppo, con maggiore libertà per gli ottoni e con le parti più ostinate affidate alle voci, in un crescendo che sembra preludere ad un brano che finalmente dispieghi il potenziale anche improvvisativo del gruppo, ma non è questa la cifra dell’album. Il minuto e mezzo finali di “Silent” congedano l’ascoltatore con una splendida tensione fra archi e voci, giusto un arrivederci ai concerti dal vivo, all’energia dell’interazione col pubblico di cui “We’re OK” propone solo alcuni, efficaci, ma perimetrati, “distillati”.
Alessio Surian
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