Artisti Vari – Changüí. The Sound of Guantanamo (Petaluma, 2021)

Gianluca Tramontana è un producer, giornalista e broadcaster milanese di nascita ma da lungo tempo trapiantato a NYC. Già musicista, road manager, collaboratore di “Jam” e di “Rolling Stone”, scrive per Mojo Magazine”, collabora con la National Public Radio. Per Radio Free Brooklyn e la britannica Resonance FM conduce il programma radiofonico “Sitting with Gianluca”, un appuntamento settimanale che accoglie musicisti, noti o meno, che si raccontano a tutto tondo. A Cuba, in un’odissea culturale e musicale durata due anni e mezzo, tra il 2017 e il 2019,  Tramontana  ha registrato sul campo, nella regione di Guantànamo, repertori di changüi, musica campesina, che sono stati raccolti in un box de luxe, intitolato “Changüí – The Sound of Guantánamo”, pubblicato la scorsa estate dall’etichetta statunitense Petaluma Records. Una brillante operazione musicale ed editoriale costituita da tre CD, che assommano a un totale di cinquanta tracce, accompagnati da bel un libro di 120 pagine che porta alla ribalta l’essenza di questo stile musicale originatosi nella cultura creola cubana. In collegamento Skype lo scorso luglio e, in seguito, attraverso scambi di email, abbiamo raggiunto Tramontana, che racconta la sua avventura umana e musicale nell’Oriente cubano alla (ri-) scoperta di questa musica per guajiros.

Cosa ti ha portato a registrare nella regione di Guantànamo?
Sono almeno trent’anni anni che frequento Cuba, ma per una strana coincidenza quindici anni fa mi trovavo a Manzanillo (distretto di Granma, nell’Oriente di Cuba, ndr), dove intendevo documentare la cultura organillera (l’organetto a rullo) per un reportage di NPR. Ero in una radio dove, in attesa che Fidel finisse il suo discorso… misero su una cassetta di musica changüi. Era l’opposto della musica cubana che si ascolta di solito: era musica sincopata, saltava come un cavallo…con ritmi strani che non sai mai dove vanno a parare perché prendono direzioni diverse. 
Ha una struttura call & response, un po’ come il blues del Mississippi, ma nessuno mi sapeva dare indicazioni più precise su questa musica. Quando chiedevo informazioni sul changüi, mi parlavano di Elio Revé, di suo figlio Elito, dei Los Van Van. Però il loro è un approccio moderno, urbano e non era quello che avevo sentito quel giorno in radio. È come se a qualcuno che ha ascoltato Robert Johnson dicessero che il blues sono Rolling Stones o Almann Brother Band. Così mi sono deciso di andare a Guantànamo per capire. In realtà, non pensavo di fare un disco, ma di fare un pezzo giornalistico. Durante il primo viaggio sono caduto in un vortice di due mesi, che poi è diventata un’odissea di registrazione durata due anni e mezzo. Pensavo di registrare soprattutto suoni di ambienti, ma poi Steve Rosenthal, che ha lavorato sulle registrazioni di Alan Lomax negli anni ’80, ha ascoltato un pezzo di tre minuti che gli avevo inviato per fargli equalizzare i suoni e mi ha detto: “Appena torni, chiamami…”. In seguito, ho parlato del progetto anche a Nick Gold (il produttore di “Buena Vista Social Club”), chiedendogli: “Nick sono pazzo a pensare di farne un disco?” Mi ha risposto: “No, per niente: questa è buona musica!”. Così i cinque minuti di un possibile report per NPR, sono diventati un box di tre CD. 

Parli di Gold ed è inevitabile che la mente corra all’operazione “Buena Vista”, di cui abbiamo salutato quest’anno il venticinquennale… 
Quello è stato un progetto di musica urbana, di art music, di canzoni composte e costruite, registrate in studio, laddove il changüi è musica di strada, da festa, largamente improvvisata, riflette lo stato d’animo, la cultura, dei lavoratori delle piantagioni, le loro provenienze. C’è l’Africa, ci sono tanti elementi, il changüí di Baracoa, per esempio, è molto più indio di quello di Guantánamo, né mancano elementi 
francesi provenienti dalla vicina Haiti.

Come si è sviluppato il progetto?
Tornando continuamente a registrare ma in maniera naturale, neppure convinto del tutto che si riuscissero a fare dei CD, vista la crisi del mercato del supporto audio. Volevo documentare ma non creare: sono un giornalista e non un produttore. Alcuni musicisti non si erano mai ascoltati dopo una registrazione: erano contenti e sorpresi di quanto stava accedendo. 

Quanto ti ha affascinato una figura come Alan Lomax?
Lomax aveva una missione: studiare, raccogliere, preservare ed educare. Diversamente, io non avevo una missione, la mia era di documentare e raccontare una storia di una comunità, di questa cultura. Non ho scoperto certo una “tribù” amazzonica, ma una cultura che non è stata molto considerata. La mia missione non era educativa o di parlare per conto loro, ma di raccontare un po’ di questa cultura con le loro parole, con la loro musica.

È stato difficile entrare in questo mondo culturale?
Ero da solo, il mio spagnolo è buono e poi vivevo lì a Cuba. Quindi è stato abbastanza naturale, perché appena i cubani sanno che non sei lì per il turismo sessuale o uno di quelli che vanno in giro con la maglietta di Che Guevara si  dispongono bene. Hanno capito che le intenzioni erano buone, che questo “yuma” era ok. Il problema era arrivare in certi posti per via della mancanza di infrastrutture: fare 10 km è come farne 300. Ti alzi all’alba e attendi un mezzo di trasporto, magari un trattore di campagna…

Con quali apparecchiature hai registrato?
Con uno Zoom H5, che è dotato di un terzo input, così ho potuto mettere un microfono sulla marímbula, strumento che non viaggia molto nell’aria... Ho usato un microfono Shock Mike Rhodes MT. Ho lavorato in sala di incisione e ho fatto il tecnico del suono, avendo lavorato nel Magic Shop nella sala di Rosenthal. In seguito, abbiamo messo tutto a posto con un mixing board, ma non abbiamo aggiunto niente, tutto è naturale.

In che occasioni avete registrato durante feste o su tua richiesta?
Entrambe le cose, Quando l’hanno fatto per me, erano situazioni sempre informali. Il changüi è inclusivo, è musica comunitaria, musica per ballare, fatta apposta per improvvisare. Per esempio, c’è Mikiki, che è un changüisero nato all’interno della vita del changüi, praticamente vissuto con machete e musica e ha sedici-diciassette, tra fratelli e sorelle (i changüseiros, giravano di località in località, scomparivano per tre o quattro giorni… e lasciavano in giro figli…). I suoi fratelli hanno un gruppo in campagna, hanno cantato liberamente in una tipica riunione familiare sul prato, con aguardiente, rhum, calore e good vibes. In un’altra occasione, siamo entrati in una camera piccola piccola, dove si stava uno sull’altro, e lì hanno iniziato a suonare. Il changüi non è una musica formale.

Quali sono gli strumenti del changüi? Di che repertorio si tratta?
Di base, tres (la chitarra con sei corde raggruppate in tre coppie, ndr), la marímbula (sorta di cassa acustica con delle linguette d’acciaio, ndr) e il bongo. In più, ci sono il güiro e le maracas. In genere, gli strumenti in genere sono costruiti in casa, ma quando se lo possono permettere, i musicisti si comprano anche chitarre. Gli strumenti si chiamano tra loro, improvvisando uno con l’altro e un brano può durare da pochi minuti a mezz’ora o più, dipende dall’occasione. Alcune session si protraggono per un intero weekend. Il changüi nasce dalla festa: è improvvisazione e inclusione. 

Cosa puoi dire delle origini?
Secondo alcuni studiosi, le origini del changüi risalgono alla fine dell’Ottocento. Alcuni etnomusicologi sostengono sia l’antesignano del son cubano, ma ci sono controversie sul fatto che sia stato un genere nato dopo l’importazione di suoni africani o se sia derivato dal nengón. Non sono un etnomusicologo, ma entrambe le forme hanno una linea temporale simile. Il changüí è attestato più intorno alla città di Guantánamo e alle colline e montagne circostanti. Nengón e kiribá sono generi che troviamo più verso la costa, dove ci sono più influenze indiane e caraibiche. Anche se la musica di Baracoa e di El Güirito ha molto in comune con il changüí di Guantánamo, compreso il repertorio e la strumentazione, sono tecnicamente diversi. La musica intorno a Baracoa e El Güirito suona più afro-caraibica. Negli anni ’40 del secolo scorso, il musicologo e compositore Rafael Inciarte Brioso ha deciso di formare un gruppo, il Grupo Changüí de Guantánamo, con gli strumenti di cui si diceva, e ha in un certo senso codificato questo genere, che non si suona per l’ascolto ma che è un invito al ballo allo stare insieme all’aperto, alla condivisione. Così,  si è creato una sorta di repertorio, ma l’aria di improvvisazione è rimasta. Come in tutta la musica tradizionale è raro che contino un motivo allo stesso modo due volte. Essendo basato sulla struttura call & response, c’è anche un repertorio estemporaneo, creato sul momento. Per molti versi il changüí mostra analogie con il blues. Come il blues, si è diffuso in tutto il paese negli anni del dopoguerra, si è trasformato e fuso in un genere moderno, e oggi viene eseguito lontano dalla sua fonte originale da molti artisti diversi con batteria, chitarre e basso, fiati e cantanti, mentre le portatori delle radici sono rimasti a Guantànamo e dintorni e hanno  Portato avanti la tradizione, anche se fuori dai radar.  

Che rapporto c’è oggi tra giovani e il changüi?
È più da vecchietti, anche se ci sono dei giovani che suonano nei dischi. Anzi, il gruppo più tradizionale che suona come centocinquanta anni fa è formato da musicisti giovani. In generale, per i giovani è musica dei nonni. 

Qual è stata la più grande scoperta?
Difficile rispondere. Musicalmente, questa è musica da troubadour che suonano con lo strumento in spalla. Mikiki, un giorno, mi ha portato in montagna a incontrare Rey, un novantenne che viveva in una parte remota della zona rurale, nella foresta. Viveva in un posto senza acqua corrente ed elettricità ed era un tresero della Madonna… ai suoi tempi. Ha scritto delle belle canzoni, era lì che fumava la pipa. Sono affascinato dal mondo che non esiste più, quando conosci un anziano che ha un legame con un mondo del passato. Era amato nella sua comunità, a 90 anni camminava per 2 km avanti e indietro dal paese. Mi parlava dei vecchi tempi, di come facevano le corde del tres e del corpo dello strumento costruito con una scatola di acciughe. Il suo brano nel disco non è rappresentativo del suono ma è storico. Poi, c’è Pedro Vera, il musicista nella copertina del box, anche lui è di montagna, ha 77 anni ed è figlio di un tresero… avrà una ventina di fratelli e sorelle. A 8 anni andava con suo padre alle feste. Siamo andati con lui, che si era messo a posto perché era arrivato un gringo a chiedere della sua musica. La famiglia è venuta ad ascoltare il vecchio parlare della sua vita: una cosa che non era mai avvenuta. Pedro aveva portato il tres e hanno suonato insieme, non un changüi ma un son montuno, ma padre e figlio cantavano insieme. Infine una terza occasione molto speciale è stata quando Mikiki e i suoi fratelli hanno inventato un pezzo al 100% in circa 2 minuti, chiedendomi “Come è il tuo nome?”. Per loro ero questo strambo italiano che invece di andare in spiaggia andava in giro per posti remoti. Così è nato “Da aquì pa’ Italia”, 4-5 minuti di call & response. 
Pur nella difficoltà di rimare con il mio nome, hanno costruito il brano davanti ai miei occhi e alle mie orecchie. 

Come è stata accolta la pubblicazione?
Ci sono stati ottimi riscontri sulla stampa internazionale e sulle radio nazionali di diversi Paesi. Tra gli altri, “Mojo” ha definito la raccolta la terza migliore uscita di world music del 2021 e il sito Afropop l’ha inclusa nelle sue scelte per il 2021.

Hai intenzione di viaggiare alla ricerca di nuovo suoni e storie non scritte da raccontare? 
Devo tornare per portare il box e le corde del tres a Cuba. Ho girato abbastanza il Brasile, dove avevo intenzione di andare, ma per ora essendo difficile muoversi, ho dovuto rinviare.



Artisti Vari – Changüí. The Sound of Guantanamo (Petaluma, 2021)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK

Un’antologia di tre CD contenenti in totale cinquanta brani, raccolti da Baracoa a Guantánamo City fino ai villaggi montani di Perseverancia, Honduras e Felicidad de Yateras, con i missaggi di Ed McEntee e la post-produzione e masterizzazione curate dai vincitori di Grammy Steve Rosenthal e Michael Graves che conferiscono calore alle musiche documentate.  Scrive Arturo O’Farrill (fondatore dell’Afro Latin Jazz Orchestra) nell’introduzione che «Gianluca Tramontana ha scoperto che l’essenza della vita può essere ridotta (o amplificata) alla semplice pratica di suonare il tres, pizzicare la marímbula, percuotere il bongo o “grattare” il guayo». A corredo della musica, c’è un libro di 120 pagine che, dopo l’introduzione di O’Farrill, propone le note di presentazione di Tramontana, i testi delle canzoni e saggi di musicologi e storici del changüi (José Cuenca Sosa, Gabriel Rojas Perez e Benjamin Lapidus) e un centinaio di foto che documentano le registrazioni e i musicisti. Questa è musica rustica, musica delle feste e degli incontri informali, sottoesposta rispetto al mainstream musicale isolano, ma che si suona ancora nei centri rurali della regione dell’Oriente.  Ad aprire è il Grupo Estrellas Campesinas (“Changüi en Yateras”) in cui si canta “Dice Cambrón que yai un changüi en Yateras /Ese changüi no lo pierdo yo”. Chiaro, no? Il Grupo Estrellas Campesinas rappresenta il tradizionalismo e per la collection hanno inciso anche “El Guararey de Pastora”, uno dei motivi più celebrati del genere. Hanno iniziato negli anni ’80, vivono nelle montagne di Yateras e sono considerati i portatori di uno stile montuno più morbido, che probabilmente era il modo di suonare il changüí nelle campagne più di cento anni fa. La selezione proposta da Tramontana offre un ampio ventaglio di suonatori ed ensemble. Innanzitutto, lo storico Grupo Changüi de Guantanamo, di cui ascoltiamo, tra le altre canzoni, “Latambé tocando el tres”, “La chacona pide un consuelo” e “Toca Marímbula, Olivares”, dedicata a José ‘Nino’ Olivares, un innovatore dello strumento cui aggiunse delle lamelle. Altra chicca da ascoltare assolutamente è il veterano Armando Yu Rey Leliebre (nel classico “El Guararey de Pastora”), raggiunto nella foresta dove viveva (è scomparso poco dopo le registrazioni), memoria e legame con un mondo che non c’è più. Ancora, troviamo El Guajiro Y su Changüi e il Grupo Familia Vera, con Pedro Vera (l’artista raffigurato in copertina). Questi ultimi fanno la parte del leone suonando una bella manciata di brani, tra cui l’imperdibile “Hace Me Falta Una Negra”. Ricordiamo ancora il cesellatore di versi Celso Fernandez Rojas e José Andrés Rodrìguez Ramìrez. Continuando l’ascolto incontriamo lo stile rurale di Popó y su changüi e, soprattutto, Las Flores del Changüí, gruppo composto da sole donne. La fondatrice, Floridia Hernández Daudinot, ha imparato a suonare il tres da sua nonna, che era una suonatrice di tres. E anche la figlia di Floridia fa parte del combo. Così continua una tradizione di quattro generazioni. Racconta Tramontana che quando l’ha incontrata, Floridia suonava un tres ridotto male. “Quando le ho registrate e portato il brano a mixare, non si poteva ascoltare... Quindi, sono ritornato a Cuba, con un tres nuovo che le ho regalato per incidere nuovamente”. Un capitolo a parte merita l’incredibile Mikiki, un changüiseiro cresciuto a machete e musica, tagliatore di canna e cantatore? Nel box lo troviamo sia in solo sia ad accompagnare i suoi numerosi fratelli, tra cui gli imperdibili Melquiades Y su Changüi. In definitiva, Tramontana ha realizzato un’antologia on the road davvero unica, con musicisti che si rivelano pienamente nel loro contesto sociale. È un’altra Guantànamo che riluce attraverso questo impedibile cofanetto da cui scaturiscono suoni vitali, veraci e sinceri. “Changüi. The Sound of Guantanamo” è un documento di notevole valore storico e musicale, senz’altro uno dei must dell’anno che – come scrive Benjamin Lapidus nel booklet – “speriamo […] vi faccia diventare un changüisero”.


Ciro De Rosa

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