Abdelli – Songs of Exile (ARC, 2021)

Nel 1974, a sedici anni, Abdelli Abderrahmane ha debuttato sul palco del festival dell’indipendenza algerina. Si era costruito la prima chitarra con legna e contenitori riciclati e corde da pesca. L’amore per la mandola lo avvicinò al musicista chaabi Chaïd Moh-Esguir che divenne suo maestro. Il suo primo album, pubblicato nel 1986 in Algeria, è “Ayem-yema”, indissolubilmente legato alla lingua cabila e quindi votato ad incontrare gli ostacoli e le proibizioni che in Algeria penalizzano i berberi: quello stesso anno, a settembre, Abdelli lasciava l’Algeria alla volta dell’Europa, trovando fortunosamente casa in Belgio dove tre anni dopo avrebbe registrato “New Moon”, l’album pubblicato dalla Real World nel 1995 con conseguente notorietà internazionale. Nato come progetto per sola voce e mandola, “Songs of Exile” rivela almeno due chiavi di lettura, e di ascolto. La prima è quella del rapporto di amicizia con Henri Bernard, la persona che a Bruxelles l’ha accolto come un fratello. Bernard è morto ad ottobre 2008. A Bruxelles, da bambino, veniva soprannominato “figlio della straniera”, in riferimento all’origine ceca della madre, giunta in Belgio negli anni Trenta. Henri e Abdelli conoscevano bene e condividevano i sentimenti legati all’esilio e per Abdelli è stato importante l’incoraggiamento che Henri gli ha sempre offerto riguardo al far ascoltare le proprie canzoni nella sua lingua madre, il cabilo. “Songs of Exile” ha voluto essere innanzitutto un omaggio alla memoria di Henri Bernard, al piacere che gli dava ascoltare le composizioni di Abdelli nella loro forma più essenziale: la voce accompagnata dalla mandola. In secondo luogo, questi brani, in parte composti già nel 2008, hanno avuto una vita propria e hanno dato forma al sentimento dell’esilio, dando voce ad una condizione che accomuna milioni di persone e sono diventati un ponte e un’occasione di incontro con altri dodici musicisti: dal Maghreb – Rachid Jazouli (tar e percussioni), Yassir Bousselman (basso, violoncello), Makrai Lamarti Mdjidou (violino), Said Mohamed Nadjid Asfour (ney); dall’Armenia – Vardan Hovanissian (duduk e clarinetto); dall’America Latina – Augusto Rego (udu), Flavio Mciel De Souza (chitarra e percussioni), Luis Leiva Alquinta (kena, percussioni), Roberto Lagos (charango); e dal Belgio - François Verdun (violino), Julien Allard (clarinetto, tastiere, basso), Laurent Moens (tres e percussioni). In questo senso “Songs of Exile” riprende il filo del discorso già cominciato con il precedente album “Destiny”, pubblicato nel 2008. Il terzo dei tredici brani è emblematico: in apertura le percussioni lasciano la parola ad Abdelli che pronuncia le semplici parole “Ayahviv ruh” (Addio amico mio) per poi alternare la sua voce a quella del violino mentre il ritmo circolare del def fonde il canto dell’archetto e il recitativo in un’unica preghiera. Ma il ritmo cambia e accelera progressivamente con il quarto brano, festosamente dedicato a Da Slimane Azem, il maestro della canzone cabila scomparso a inizio del 1983. Alla rondine raffigurata nella copertina dell’album dà ali il quinto brano, ballata ben ritmata che diventa metafora dell’intero lavoro. Il testo che nel libretto accompagna il brano è dettagliato: a Abdelli interessa che all’ascoltatore arrivi la musicalità della voce cabila, ma anche il senso delle strofe cantate che qui descrivono l’incontro fra un migrante anziano ed una rondine cui chiede di poterla accompagnare nel viaggio di ritorno attraverso il Mediterraneo. Le ali della rondine accolgono e proteggono il migrante fino al suo villaggio natale. Nel corso del viaggio la rondine avverte il passeggero che nella sua terra tutto è ormai cambiato. L’anziano migrante lo sa e canta “So che al villaggio tutto è cambiato, anche la mia faccia è così cambiata, solo la mia voce rimane la stessa. Lasciami a cantare sulla soglia di casa”. Il ricorso ad una dimensione “sognante” va oltre il riferimento agli strumenti che l’immaginazione culla in chiave onirica, ma vuol essere anche un omaggio all’idealità con cui molti artisti vivono la propria creatività in funzione trasformativa, per un mondo migliore, fatto di libertà e giustizia, come cantano i versi di “Tirga u fenan” (Il sogno degli artisti), ripresi da un clarinetto che apre alla speranza. Gli fa da contraltare un altro fiato, un flauto traverso particolarmente espressivo, che in “Oulim Verik” (Cuore nero) introduce l’ascoltatore ad un brano musicalmente allegro e danzante, mentre le parole cantano il lato d’ombra di chi è chiamato a confrontarsi con le difficoltà della vita. La mandola di Abdelli apre in solitudine “Sin iverdhan” (Due vie) che riassume la filosofia dell’album cantando il senso di tensione di chi si trova diviso fra il desiderio del ritorno e quello del vivere la terra dell’esilio. 


Alessio Surian

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