Manuela Salinaro – Main Hands (Liburia Records, 2021)

Porta con sé una valigia di percussioni (daf, bendir, tar, darbuka, doumbek, zarb, djembe, qraqeb, udu, cymbals, shaker) Manuela Salinaro, musicista di origine tarantina a lungo di residenza leccese, che da circa un anno tesse nuove storie tra Veneto e Alto Adige. L’abbiamo incontrata più volte sulle pagine di questo magazine, come fondatrice dei Kërkim, una formazione che raccoglie apprezzati strumentisti della scena musicale pugliese sintonizzati su frequenze sonore balcaniche e mediterranee. Nella tarda primavera di quest’anno Salinaro ha pubblicato “Main Hands”, primo album a suo nome su cui aveva iniziato a lavorare un anno prima, prodotto in collaborazione con i musicisti “giusti”, con cui Salinaro condivide il proprio percorso musicale. L’album è stato pubblicato dall’etichetta campana Liburia Records, una delle nuove imprese musicali più attente al panorama degli “altri suoni”, che si muove alla confluenza tra musiche del mondo, improvvisazione ed elettronica. Costruito in multi-traccia, “Main Hands” propone un ventaglio di ambientazioni sonore, dove si intrecciano strumenti acustici ed elettronica. In un Paese dove le percussioni, mediaticamente e sui palchi, parlano quasi esclusivamente al maschile, “Blogfoolk” ha incontrato la musicista tarantina per approfondire questo progetto. 

Come ti sei appassionata agli strumenti a percussione? 
Credo si riferisca alla mia personalità innata. Ho il ricordo di aver utilizzato qualsiasi tipo di oggetto casalingo che potesse prestarsi alla funzione di batteria. Avevo anche una vecchia bicicletta Graziella dismessa che fungeva da meccaniche, forse è difficile da immaginare ma posso assicurarvi che è tutto
vero! Le percussioni non sono quasi mai visivamente in prima linea, neanche gerarchicamente nelle line-up. Acusticamente sono un tappeto che sorregge l’intera struttura però, il che le rende intimamente attraenti e femminili. 

Che differenza porti nell’essere una percussionista? 
Probabilmente un labirinto di interpretazioni culturali che si sono incontrate, evolute per dei versi, ma con tanta strada da fare ancora. Il ritmo è come un tappeto che giace sotto e che porta allo stesso tempo, secondo me, è molto femminile come concetto, rompe con l’idea del percussionista brutale con mani pesanti. Come immagine è un po’ estrema, ma spero di rendere l’idea… 

Come nasci come percussionista? 
Ho iniziato lo studio dei rudimenti in batteria durante i primi anni di Università. Dopo qualche anno, mi resi conto che continuavo a sentire un impulso molto forte a voler accorciare la distanza delle mie mani dalle pelli, cosa resa impossibile dall’utilizzo delle bacchette. Distanza che ho sempre ritenuto di carattere emotivo, mentre affondare le mani nelle pelli dei tamburi mi lasciava assaporarne armonici e vibrazioni. Per me è un viaggio di altra natura rispetto alla batteria. 

Hai avuto dei maestri, dei modelli, dei mentori? 
Sicuramente Vito De Lorenzi ha dato forma al mio sogno, sostenendomi nelle prime fasi con lo studio della batteria. Ho avuto poi la fortuna di incontrare nel mio percorso il maestro Paolo Pacciolla, con cui ho studiato le percussioni iraniane, lo zarb in particolare, presso il Conservatorio di Lecce, durante un corso di percussioni mediorientali. Tutto questo ha dato sostanza al resto, nutrendomi di studio e tanto tanto ascolto. Il primo disco che mi aperto mondi sonori fu una raccolta del Trio Chemirani, una famiglia di percussionisti molto noti nella musica classica iraniana. Molti dei loro lavori ispirano grossa parte della mia materia immaginativa musicale. Insieme con Redi Hasa, mio amico fraterno, con cui ho trascorso la parte più significativa dei miei anni leccesi, ho ispessito le trame della mia personalità musicale, tirato fuori dubbi di qualsiasi carattere, generi musicali, linguaggi, culture. Ecco sì, posso definirlo mentore illuminante. Accanto a lui, la mia esperienza napoletana che posso definire il motivo di scelta. 
Con Davide e Cristiano Della Monica ho esplorato, fisicamente in viaggio ed emozionalmente in sala, paesaggi musicali situati intorno il Mediterraneo e me ne sono innamorata. 

L’emozione più forte che ti dà la musica? 
Libertà. Nella musica ti ci perdi, è come un universo protetto al di fuori di ogni sistema interpretativo. Nonostante i suoi canoni, il suo carattere fortemente evocativo, ci lascia la dimensione più libera che abbiamo ancora: l’immaginazione. 

Hai dei luoghi del cuore percussivi? 
Tutte le terre del Mediterraneo. Tradizioni antiche con profondi contenuti culturali dietro ogni trascrizione ritmica. Trance, proteste, amore... 

Come nasce e come hai costruito “Main Hands”? 
Sentivo l’esigenza di raccontarmi. Dopo diversi anni di Kërkim, in cui ho suonato un set misto tra batteria e percussioni, ho avvertito quel vecchio impulso di liberare le mani e unire le tracce del mio percorso di ricerca musicale, provando a condurre il lavoro di ricerca tra le tradizioni antiche in un canale contemporaneo che utilizzasse le moderne tecniche di registrazione. Ho scelto di eseguire un lavoro in multi-traccia, costruendo frasi ritmiche con diversi timbri sovrapposti dalla loop station. Ho tracciato in tal modo un percorso sonoro immaginando paesaggi, colori ed odori. Trasferite le mie suggestioni ai 
compagni di viaggio di questo disco, ho lasciato loro liberi di esprimere le loro emozioni. 

A tal proposito, come hai scelto i musicisti collaboratori? 
Non ho impegnato molto tempo nella scelta, mi sono affidata al cuore. Ho condiviso con ciascuno di loro una fetta importante del mio percorso, sia nella vita privata che nella mia vita artistica, sentivo di potermi affidare totalmente, perché consapevole che fossero le persone più adatte a tradurre i miei sentimenti musicali. Sono musicisti che stimo insieme a tanti altri del panorama musicale intorno a me, ma loro erano “quelli giusti”... 

Che ruolo assegni all’improvvisazione? 
Ti ringrazio davvero per questa domanda. Per me l’improvvisazione è la forma più autentica di espressione del sé. È chiaro come sia fondamentale lo studio dei principali canoni, stili, linguaggi e tecniche sugli strumenti, ma è anche indispensabile liberare le proprie suggestioni, facendo sì che in qualche modo rispettino le tradizioni di provenienza ma che sappiano elaborarle con le più intime interpretazioni. Tutto questo sviluppa una forza creativa di grandi potenzialità. 

E all’elettronica?
L’elettronica ha una importantissima funzione di “addensante” e traghettatore nella contemporaneità. Rischiosa se utilizzata con superficialità o eccessivo spirito commerciale. 

Che ruolo melodico assegni alle percussioni? 
Beh, avendo studiato la musica iraniana ed alcuni dei suoi fraseggi, le percussioni secondo me possono tracciare melodie interessanti ed esaustive della storia che si vuole raccontare. In questo lavoro in particolare, ho preferito mantenere una dimensione più ritmica e lasciare agli ospiti la parte melodica. 

C’è un brano o più di uno che rappresenta il senso della tua ricerca sonora? 
“South”, un vero e proprio viaggio nei mercati arabi. Sono stata per lavoro diverse volte a Marsiglia, città che adoro per la sua multiculturalità: il suo quartiere arabo ha ispirato questo brano. Le spezie, i colori, il calore di quelle terre, gli odori forti, il vociferare dei mercanti, il suono di percussioni suonate per strada, sono momenti intensi che si imprimono. Poi, “Avott’”, ringrazio la mia amica, quasi sorella, la definirei, Irene Lungo, per averne scritto il testo. Il brano raccoglie l’amore per una terra che mi ha accolto, Napoli, nel periodo di introspezione della mia vita durante quegli anni ha preso forma questa mia personalità musicale. Abbiamo scelto un testo che raccontasse alcune delle sue contraddizioni più gravi. “Main Hands”, come ho più volte descritto nella storia del disco, è stato il momento di vero e puro gioco con quasi tutte le percussioni che compongono il mio percorso di ricerca musicale. Ho lasciato che le mie mani conducessero l’intero brano in maniera autentica e prive di un vero e proprio rigore compositivo. È l’espressione più autentica ed elementare di ciò che il ritmo può generare nella sua ripetitività, una vera e propria trance sonora. 

Uno dei brani di punta è “Mashrabyia”, evocativo fin dal titolo… 
Il Mashrabiya è un dispositivo caratteristico della architettura araba che permette la ventilazione delle stanze attraverso una serie di piccolissime fessure. L’idea è di poter intravedere l’apertura dall’interno preservandone l’intimità e… “salvaguardando” le donne da sguardi indiscreti. Quasi obbligata la similitudine nel mio immaginario con le fessure dalle quali possiamo osservare gli sguardi delle donne di quei luoghi. Il che mi riporta ad emozioni al contempo affascinanti da un lato e devastanti per tutto il peso
culturale che porta con sé. Per questo brano penso a una lunghissima tradizione di musiciste donne nelle orchestre classiche in Iran. A una donna che suona nella sua stanza, dalla quale intravede una luce che oltrepassa la mashrabiya, portando con sé aria e odori dei suoi luoghi. È il solo brano di interplay live che ho avuto l’onore di creare e condividere con il violoncellista Redi Hasa. Tutti i brani del disco sono un flusso senza filtri, in particolare questo, un fluire di mani che seguono gli sguardi, al di là della nostra mashrabiya in sala. 

Cosa ti porterà nell’immediato il futuro percussivo e compositivo? 
Mi sono approcciata a questo lavoro discografico con una sorta di calma lavorativa. Sarà stato anche il periodo Covid, ma non ho voluto imprimere un’aggressiva opera di ricerca commerciale. Sto lavorando a uno spettacolo live che rappresenti l’essenza di questo disco. Una performance che conterrà l'aspetto percussivo live, la danza e il visual, durante il quale Manuela non sarà in prima linea ma sosterrà l’intera performance nel suo insieme. Il che mi riconduce alla forma primordiale del mio essere musicale. 



Manuela Salinaro – Main Hands (Liburia Records, 2021) 
Ci si mette in viaggio verso “South”, con una procedura che dispone sequenze percussive in loop, accompagnate da field recording. Sia ben chiaro che “Main Hands” non è riducibile al tag mediatico di “musica mediterranea” né propugna pillole di esotismo in note, piuttosto è il segno di un ibridismo che non persegue schemi predefiniti e che piuttosto si abbandona al flusso dei ritmi. Manuela Salinaro apre il suo baule di tamburi, percussioni e idiofoni di diversa foggia e provenienza. La sua musica è la sedimentazione di studio, di frequentazioni e incontri, di ricerca tra le tradizioni antiche mediate dal canale della tecnologia contemporanea, ma scaturisce soprattutto dal profondo di se stessa, non è soltanto frutto di tecnica ma anche di istinto, assecondato e liberato. Cellule ritmiche, timbri e armonici che si sovrappongono fondendosi con loop, field recording, voci (Irene Longo, canto e testo di “Avott’”, Matteo D’Onofrio, voce nell’intro dello stesso brano) e interventi liberamente emozionali di corde e fiati, grazie a Redi Hasa (violoncello), Valerio Daniele (synth e chitarra baritona, mixing e mastering), il Kërkim Morris Pellizzari (saz, kora e chitarra baritona), Giovanni Chirico (sax soprano, Francesco Di Cristofaro (synth, stylophone, flauto di bamboo e field recordings). Il primo singolo “Acqua” (di cui è stato realizzato anche un video) si muove come una danza sospesa tra il Maghreb nero e l’Africa subsahariana: “Il brano vuole condurre l’ascolto a un’esperienza liberatoria, come l’acqua che scorre intorno a noi”, racconta la percussionista pugliese. Un attacco ‘a fronna è l’incipit di “Avott’”, tammurriata cantata da Irene Longo, il cui testo offre una riflessione sulla “Terra dei Fuochi”. Alle atmosfere rarefatte di “Limping wind”, giocata su tempi dispari su cui si intrecciano corde e a armonizzazioni prodotte dall’elettronica, segue “Rohi”, dove il dialogo tra le pelli e il liuto a manico lungo si accende progressivamente con richiami flamenco fino a ritornare a cadenze più pacate. In “Masharabya” – il dispositivo a griglia per la ventilazione forzata naturale, frequentemente usato nell’architettura tradizionale dei Paesi arabi – il violoncello di Hasa apre scenari sonori inediti e si pone in dialogo con la percussione “melodica”, il tamburo a calice monopelle iraniano zarb, mentre nella successiva, “Za’atar”, anch’essa screziata di Medioriente, serpeggia un sax soprano dal profilo jazzato. Infine, le contemplazioni iterative elettronico-acustiche della title track racchiudono il senso profondo di questo album, in cui Salinaro invita l’ascoltatore “a sciogliere il corpo e seguire la danza in una fusione tra gioco e realtà”. 


Ciro De Rosa

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