Erica Boschiero – Respira (Squilibri Editore, 2021)

Ci sono dischi che fanno del loro essere convintamente militanti il proprio marchio di fabbrica. Ecco, “Respirare”, il nuovo lavoro di Erica Boschiero, cantautrice veneta giunta ormai al quarto album, segue, pur con una fortissima componente personale, questo filone qui. Perché è un disco che parla del mondo che ci circonda, e ce lo racconta con infinita grazia ma, al contempo, riuscendo a centrare con la lucidità degli artisti le sue mille contraddizioni. Album che si apre con “Ascolta” e con il suo arioso arpeggio, che poggia su un acquoso tappeto di sintetizzatori. A seguire troviamo “La memoria dell’acqua” (“Sul fondo del mare gli occhi stanno aperti/ Conservano ancora tutta la frenesia/ E tra le conchiglie brillano i ricordi/ Tra i pesci resta a danzare una fotografia”), brano che prende le mosse da un delicato arpeggio di chitarra e dal perfetto incastro fra l’organetto di Alessandro D’Alessandro e il violoncello di Giovanna Famulari, entrambi chiamati ad allargare l’atmosfera di un pezzo che, sotto un vestito musicale raffinato, racconta- anche con immagini abbastanza crude, vedi gli occhi aperti sul fondo del mare di cui sopra- del dramma quotidiano che sconvolge il Mediterraneo. Su “Un’ostrica e una perla” ci accoglie una dinamica decisamente più movimentata, sostenuta ritmicamente da un secco strumming di chitarra e da un pattern di batteria giocato soprattutto sui tom. A movimentare ulteriormente l’architettura sonora del pezzo ci pensano i ricami di una chitarra classica, uniti alle incursioni di un clarinetto e di un violoncello. Anche “Albero maestro” (“Non son di corallo, né metallo/ Né di pietra, né di vetro/ Sono legno che risponde/ D’ambra che guarisce le ferite/ Vita dentro a cento vite/ Fino al colpo della scure”) è scandita da un ritmo e da una metrica abbastanza serrati, mitigati, però, dall’atmosfera rarefatta di cui la canzone è intrisa. Atmosfera data da una ventosa base melodica di synth, accentuata a sua volta da una collosa linea di basso e da un freddo violoncello. Giro di boa del lavoro è “Monamour”, su cui tornano protagonisti arpeggi meno brumosi dei precedenti, contrappuntati, con medesima grazia, dal solito e ben riuscito incontro fra clarinetto e violoncello. “Sale” si snoda lungo le trame tessute dall’incastro fra una chitarra acustica, che si occupa della ritmica, una chitarra elettrica, e le umide incursioni di una chitarra slide, legate fra loro dall’agitarsi di una vorticosa linea di basso. Si arriva a “La città della gioia” (“Canto quel dolore che non era previsto/ Quando l’uomo al mondo ancora non s’era mai visto/ E mi pare quasi che si unisca al canto/ La balena bianca che qualcuno ha cercato così tanto”), probabilmente l’episodio più interessante e meglio riuscito dell’intero album. Qui un tetro reticolato di violoncello, fra parti soliste, pizzicati ed ostinati, scorta la chitarra acustica. In sottofondo crescono, quasi nascosti da un viscosissimo tappeto di synth, i fraseggi di una cupa marimba. In questo clima quasi soffocante, le aperture melodiche dei ritornelli costituiscono un vero spiraglio di luce. “Per sempre proteggo” (“Per ogni porto che hai sognato/ Per ogni sogno appena nato/ Per quella linea che hai tracciato sulla mappa/ E in quella mappa è capitato fossi anch’io”) è la proverbiale quiete dopo la tempesta, un brano commovente nel suo essere fragile, di una fragilità che si rispecchia perfettamente nell’arrangiamento, con gli ariosi fraseggi della chitarra slide (“Asso” Stefana) a colorare l’arpeggio di chitarra acustica, sostenuto a sua volta dal contrabbasso di Ferruccio Spinetti. La title track è sorretta da un brioso arpeggio di acustica che, insieme alla linea di basso e ad una interessante figurazione di charleston, fa da sostegno ritmico per le svisature, alternativamente, di violoncello, chitarra elettrica e chitarra slide, mentre la solita base di sintetizzatori si occupa fare da collante fra le varie componenti dell’arrangiamento. A chiudere il lavoro è “E resta il grano”, (“È quando tutto si tace a battaglia finita/ Che riconosci/ che è oro ogni ferita/ E ti sorprendi nell’atto di benedire/ Tutto il dolore e la forza di farlo fiorire/ E resta il grano a dondolare/ Che l’uragano è finito e ora puoi riposare”), brano che vede la presenza di Neri Marcorè. Parto subito da lì, per dire che l’incontro fra le due voci è perfetto, elegante e delicato, con un Marcorè che ha perfettamente centrato l’umore del pezzo. Pezzo che, dal punto di vista strumentale, si distende lungo lo strumming della chitarra ritmica, su cui guizzano le eleganti svisature della chitarra elettrica e le pacificanti incursioni dei sintetizzatori. È un lavoro puro, questo di Erica Boschiero, che del respiro prende gli afflati più vitali, liberatori e catartici. Un disco raffinato, a tratti quasi fuori dal tempo, denso di cose da dire e di storie da raccontare. E intriso del respiro del mondo. 


Giuseppe Provenzano

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