Nata nel 2007 da un’idea di Checco Pallone e Giuseppe Marasco per rendere omaggio alla tradizione musicale calabrese e più in generale a quella del Sud Italia, la Calabria Orchestra è un large ensemble di base a Cosenza con “un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro”, come cantava l’indimenticato Pierangelo Bertoli. La formazione cosentina giunge al debutto discografico con l’omonimo disco dal vivo che mette in fila le riletture di sette brani, di cui cinque provenienti dalla tradizione folk calabro-siciliana, e due omaggi alla canzone d’autore tratti rispettivamente dai repertori di Rino Gaetano e Fabrizio De Andrè. L’album si apre con “Leva, leva” caratterizzata da una dinamica che strizza l’occhio al jazz, sostenuta dal basso ed impreziosita dai contrappunti degli archi che squarciano il tessuto ritmico cucito dai tamburi a cornice e dall’organetto. Concludono i brani gli assoli di chitarra e sax dai colori improvvisati. Si prosegue con “Occhi turchini”, preceduto da “Occhi”, preludio composto da Chicco Pallone che si orienta verso l’Africa, scandito dagli arpeggi del ‘ngoni e dall’incastro fra le voci di Federica Greco e Moussa Ndao, in una commistione musicale e culturale perfettamente riuscita. L’ingresso del violino si incastra perfettamente con la ritmica scandita, anche in questo caso, da una linea di basso avvolgente e da un pattern di batteria sabbioso, allargato da un solo di sax che evoca il vento caldo africano. “Amuri amuri”, introdotta dall’intro strumentale “Amuri”, si snoda lungo un reticolato di fiati, rinforzati dall’ingresso dei tamburelli e del rullante. Il working bass che anima le trame del pezzo è, insieme ad un cantato denso di pathos, la proverbiale ciliegina sulla torta di questa prima parte del brano, che apre ad una seconda parte intrisa di improvvisazione e, soprattutto, di sperimentazione. Interessante, e a tratti inaspettato, il finale a tinte balcaniche, con l’accelerando ritmico sottolineato dagli archi. “Mi votu e mi rivotu” dal repertorio di Rosa Balistreri è aperto da “Stranìa”, che segna il ritorno delle nuances africane, con un violino indiavolato a poggiare su un tappeto ritmico composto da un secco pattern di percussioni e da una linea di basso dinamica e potente, con gli squarci dell’organetto che sparigliano le carte in tavola. All’ingresso del cantato, troviamo un cupo arpeggio di chitarra elettrica che ben si accorda alle aperture dell’organetto. Quest’ultimo sale in cattedra nella parte improvvisativa del brano, tessendo una trama solista pazzesca, a metà fra accordi pieni e fraseggi acidi, ripresi nella coda finale anche dal sax. Arrangiamento, questo, che regala ad un classico della musica siciliana, una veste cupa, a tratti corrosiva che, sarò campanilisticamente di parte, mi sembra più che funzionante. La rilettura di “Dolcenera”, dal songbook di Fabrizio De André, spicca per il tuonante muro percussivo, sottolineato dal basso e contrappuntato dalla sezione archi e dagli arpeggi della chitarra. L’intermezzo strumentale, guidato dalla ciaramella, strizza l’occhio alla tarantella e lancia il finale, chiuso dal dialogo tra organetto e fiati. L’elegante “Waltz ppe tia”, trainato ritmicamente da chitarra, organetto e rullante spazzolato, introduce a “Spuntunera”, episodio colorato da una variopinta sezione fiati, che anima anche la dinamica della parte strumentale, e, insieme ad una spettacolare chitarra elettrica col wah- wah, fa decollare la canzone. A chiudere il disco è “Gianna”, rilettura del classico di Rino Gaetano Un interessante attacco con marranzano, fiati e un elegantissimo arpeggio di chitarra classica fa da trampolino di lancio per l’ingresso dell’organetto, che riprende, rivoltandola in minore, l’iconica intro del pezzo. Il climax guidato dagli archi ci riporta sul modo “naturale”, con organetti e violini in rilievo, una linea di basso jazzata e delle svisature di chitarra elettrica che strizzano l’occhio al country. In conclusione, ci troviamo di fronte ad un disco ben suonato e ben strutturato in cui si concretizza l’incontro, della musica come strumento - anche eversivo - viste le tante e fantasiose variazioni sui temi - di condivisione e presa di posizione. Anche questa, in qualche modo, è resistenza.
Giuseppe Provenzano
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