Stregoneria e witch camps nella modernità ghanese

Parlare di stregoneria in Africa, per chi fa ricerca su questi temi in quei contesti, è sempre complesso perché occorre misurarsi con inveterati stereotipi su una presupposta ancestralità della stregoneria che rimanderebbe a forme primitive di organizzazione sociale di cui i paesi africani dovrebbero sbarazzarsi per entrare a pieno titolo nella modernità. In realtà un tale discorso non fa che riproporre vecchi stereotipi e distorsioni che non aiutano a comprendere le attuali dinamiche sociali che si possono trovare in Africa, né quali siano le poste in gioco che si coagulano intorno ai discorsi sulla stregoneria e le pratiche di antistregoneria, cui i witch camps fanno parte. Prima di dare una breve descrizione di tali campi, è bene dunque ricalibrare il discorso sulla stregoneria. Ancor prima di “Stregoneria, Oracoli e magia tra gli Azande” di Evans-Pritchard (Evans-Pritchard E.E. 1976 [1937]), e certamente in misura maggiore dopo la pubblicazione di quel testo, la stregoneria ha spesso rappresentato un luogo privilegiato di riflessione per le antropologie africaniste. Uno dei punti di vista privilegiati per leggere le società africane. Il testo di Evans-Pritchard sicuramente ha fatto giustizia delle facili letture che vedevano nella stregoneria un insieme di pratiche superstiziose, magari specchio di una mentalità pre-logica, imponendo alla comunità degli antropologi, e non solo, un livello di riflessione più complesso che tenesse in conto la sottesa razionalità di quelle pratiche, la loro natura di sistema e la logica sociale che le governa. Quando il principale interesse degli studiosi si spostò dai meccanismi di conservazione della coesione e dell’equilibrio sociali all’analisi delle dinamiche di mutamento, il modo in cui ci si accostava alla comprensione delle pratiche di stregoneria, e soprattutto dei culti antistregonici, mutò radicalmente. 
Ciò si accompagnò, e fu in parte provocato, dalla constatazione che i mutamenti sociali ed economici in atto nelle colonie africane non avevano scalfito le “credenze” riguardo la stregoneria. Anzi, in diverse situazioni, come ad esempio in quella porzione di Ghana investito fortemente dal mutamento economico e sociale indotto dalla introduzione della coltivazione intensiva del cacao e dal conseguente arrivo di manodopera immigrata dalle aree povere del paese (Field M.J. “Search for security”,1960), esse erano più che mai vive e in espansione. L’orizzonte ideologico e le pratiche relativi alla stregoneria non potevano pertanto essere confinate alla vita dei villaggi, considerate come un residuo ancestrale destinato ad affievolirsi. Studiosi come Margaret Field, Audry Richards e altri rilevarono la forte connessione tra l’espandersi dei complessi di idee e pratiche relative alla stregoneria e i nuovi assetti sociali imposti dalla modernizzazione. La persistenza, e spesso la diffusione, di tali idee e pratiche era vista come il risultato dei disagi della modernizzazione, come la risposta che il mondo indigeno forniva all’avanzare di un nuovo ordine sociale che lo aveva irrimediabilmente messo in crisi. Se dunque la stregoneria persisteva nei nuovi contesti sociali, era perché consentiva di rispondere all’insicurezza da questi generati, e più in generale era il sintomo del disordine e dell’instabilità prodotte dal rapido mutamento degli equilibri sociali e di potere. Negli anni ’90 l’interesse degli antropologi per la stregoneria ha conosciuto un rinnovato vigore (ad esempio Geschiere P. “Sorcellerie et politique en Afrique. La viande des autres”, Karthala, Paris 1995, Comaroff J. - Comaroff J.L. (curr.) “Modernity and its malcontents. Ritual and power in postcolonial Africa”, The University of Chicago Press, Chicago and London 1993). Molto spesso gli studi sono stati condotti in aree urbane, luoghi in cui tali pratiche sembrano espandersi sempre di più. Le analisi contemporanee sulla stregoneria rifiutano esplicitamente l’idea che la sua persistenza sia legata al “disagio della modernizzazione”. Quel che viene rifiutato è proprio il paradigma teorico della modernizzazione, l’idea che le società africane stiano compiendo un cammino dalla “tradizione” verso la modernità”. 
Quel che è interessante sottolineare è come nel recente dibattito si rifiuti con forza l’idea che la persistenza dell’occulto (termine da preferire a stregoneria perché più inclusivo sulle pratiche che si ritrovano), e ancor di più il suo espandersi nelle aree urbane, possa essere in qualche modo ricondotto al “disagio della modernizzazione”. All’idea cioè che tale fenomeno abbia origine dallo stridente contrasto tra un “pensiero tradizionale africano” e la modernizzazione del paese, e allo stesso tempo sia conseguenza di tutti i disagi che questa comporta. In qualche modo secondo questa prospettiva si dovrebbero leggere stregoneria e occulto, nella loro attuale espansione, come risposte alle difficoltà causate dal tumultuoso mutamento sociale in atto. E invece l’occulto, nell’analisi degli antropologi sopra citati, deve mettere invece in discussione una certa idea di modernità. Mi riferisco cioè alla concezione che vede la modernità come una configurazione occidentale, e che quindi designa come “modernizzazione” l’approssimarsi via via più deciso all’Occidente. Insomma, sarebbe moderno solo ciò che nelle forme, nelle retoriche, nelle pratiche nonché nei portati tecnici e tecnologici ricalchi i modelli occidentali. Una tale visione è oggi messa in questione, e si insiste sulla pluralità delle modernità (coniando il neologismo inglese di modernities). Assumere la molteplicità delle modernità (intese come esperienze storiche peculiari e non replicabili altrove) significa convenire sul fatto che esista una costruzione e ricostruzione di programmi culturali e assetti sociali molteplici, che non possono essere visti come un progressivo ridursi a un modello dominante, o meglio a una matrice generatrice. In tal senso la nozione di modernità multiple ha in sé implicito il rifiuto del paradigma della modernizzazione, per come l’ho descritto più sopra. 
Le pratiche dell’occulto, quindi, vanno lette non come una vestigia del passato, come una forma culturale che per quanto tuttora persista è destinata a scomparire, spazzata via dal vento della modernizzazione; vanno invece considerate come una parte costitutiva di quella esperienza storica peculiare che è la modernità africana nelle forme, ovviamente differenti da Paese a Paese, che va assumendo. È in questo quadro che vanno letti, quindi, i witch camps. Come non il residuo di un passato premodermo, ma come il risultato di una complessa storia, in cui il colonialismo gioca una parte essenziale, e la cifra di una lotta sociale tutta moderna. I cosiddetti “witch camps” sono una sorta di villaggi, sorti solitamente nei pressi di un santuario - ovvero un albero, una roccia, un luogo custodito da un’autorità religiosa “tradizionale” – preposti all’accoglienza di persone accusate di stregoneria. La maggior parte di questi campi, senza dubbio quelli citati dalla letteratura e dai rapporti di associazioni non governative, si trova nelle regioni del nord. L’opinione pubblica, il lavoro delle organizzazioni non governative, degli enti religiosi internazionali e locali, e non da ultima, la narrazione consolidata dalle istituzioni governative, riverberano posizioni che difficilmente conciliano l’esigenza di tutela alle persone ospiti dei campi, e un’agenda che esige lo smantellamento degli stessi, percepiti anche come uno stigma nazionale, nonché un perenne monito a memento della marginalità della parte settentrionale del Ghana. Sebbene le rappresentazioni legate alla stregoneria siano vivide e condivise praticamente ovunque, a prescindere anche dall’affiliazione religiosa personale, il fenomeno dei campi mantiene una specificità tale che per essere compresa, necessita ragionare almeno su tre punti: la modernità della stregoneria; 
le relazioni di genere; le dinamiche di poteri locali, e su come i processi storici e coloniali abbiano riplasmato e determinato ciascun aspetto. Africanisti come Alice Bellagamba ci ricordano che: “Con i discorsi di stregoneria e le azioni pratiche dirette contro la stregoneria, la società mantiene viva la capacità di osservarsi preoccupata. Ricorda il proprio passato e contesta il presente” (Bellagamba A. 2008, “L’Africa e la stregoneria. Saggio di antropologia storica”. Editori Laterza, Bari. 2008: XV). Sebbene vi siano anche uomini accusati di stregoneria, molti non si trovano a dover lasciare la propria unità domestica: un’eccezione sensibile è il campo di Gnani, che ospita anche uomini konkomba. La maggioranza sono donne, e incorrono nelle sorti tipiche di chi riceve questo tipo di accusa: vengono picchiate e financo uccise, e se vive, bandite da un’autorità locale; si trovano a dover officiare rituali volti a confermare l’accusa di stregoneria, o in ogni caso, ad annientare il dannoso potere stregonico che si ritiene da loro posseduto. A questo punto, i campi, che mutano per composizione ed organizzazione, ma che generalmente sono costituiti da agglomerati di capanne, possono ospitare le persone accusate, specialmente quando non hanno supporto familiare o abitativo. Le accuse hanno luogo quando una donna non soddisfa l’opinione pubblica o le aspettative sociali, e avvengono soprattutto (ma non solo) nella terza età, quando la donna, rimasta magari vedova, si trova a tornare a vivere nella casa paterna, senza poter più contribuire all’economia familiare, né come forza produttiva né riproduttiva. Molte accuse vengono attribuite alla rivalità tra co-mogli, laddove la residenza a casa della famiglia del marito e la poligamia comportano unità domestiche composte da donne al contempo prossime ed “estranee”, in quanto
provenienti anche da villaggi remoti, che lasciano una volta sposate. Durante la mia ricerca, che ha avuto luogo nella Northern Region, ho riscontrato un numero importante di accuse proferite anche da parte dei fratelli delle donne, a conferma di quanto la presenza femminile venga ritenuta perturbante sia quando irrompe come una novità (dimora coniugale) sia quando ritorna (dimora paterna o fraterna), non trovando facile collocazione né simbolica né fisica. Le genti della savana del nord erano state sin dalla fine del Settecento il principale bacino di approvvigionamento di schiavi, ed in seguito manodopera, sia coatta che retribuita; le donne continuarono ad essere vendute al sud come concubine e serve anche dopo l’abolizione della schiavitù, avvenuta nel 1874. Spesso, venivano date in pegno dalle famiglie per ottenere prestiti (Brivio A. 2019, “Donne, Emancipazione e Marginalità. Antropologia della Schiavitù e della Dipendenza in Ghana”. Meltemi Editore, Milano). Anche l’indipendenza nazionale del 1957 non ha minimamente indebolito la dipendenza dal sud, peggiorata nei decenni successivi con l’adozione dei PAS, Programmi di Aggiustamento Strutturale, imposti dalla Banca Mondiale negli anni ’90: in quel decennio, quasi tutto nel nord era importato e non più prodotto localmente. La crisi economica degli anni Ottanta del Novecento avrebbe poi indebolito le attività maschili, come il commercio di bestiame, mentre le donne avrebbero allargato il loro ambito lavorativo, sfuggendo al controllo dei capofamiglia e dei mariti, spostandosi nelle città in cerca di lavoro (Drucker-Brown S. 1993, “Mamprusi Witchcraft, Subversion and Changing Gender Relations”. Africa: Journal of the International African Institute 63 (4): 531-49). 
Anche per questo vi sarebbe stato un intensificarsi delle accuse di stregoneria rivolte contro le donne, che si nutrivano di, e incrementavano, rappresentazioni portatrici di stereotipi riguardanti la voracità e la pericolosità femminile. Il campo più antico, Gambaga, viene fatto risalire a fine Ottocento, quando un imam avrebbe accolto una donna accusata di stregoneria. Oggi i campi ospitano da alcune decine ad alcune centinaia di ospiti, che trascorrono le loro giornate cercando di coniugare lavori accessibili, come la produzione e la vendita di burro di karité, al supporto di eventuali familiari, e quello di organizzazioni religiose e non governative. Il campo nasce nelle colonie, ove serve a sconfiggere la guerriglia impedendo il rapporto fra guerriglieri e civili deportati, ma non resta lì confinato: l’encampement du monde, per dirla con le parole di Michel Agier (Agier M. et al. 2014, “Un monde de Camps”. Editions La Dècouverte, Paris) si presenta dunque come una delle forme di governo del mondo, una modalità per gestire l’indesiderabile. Ancora oggi difatti, e in contesti a noi assolutamente prossimi, troviamo “campi” (hotspots; campi profughi; Centri di Permanenza per i Rimpatri…) preposti alla gestione dei flussi migratori, inquadrati all’interno di una “crisi” anziché di un fenomeno sistemico. Anche per chi non ha mai visitato il Ghana e i “witch camps”, non dovrebbe risultare difficile dunque comprendere come teorie e pratiche per disciplinare corpi, sanzionare alterità, arginare possibilità di movimento, siano strategie diffuse, anche laddove la stregoneria non sembra turbare alcun tipo di quotidianità.

Pino Schirripa e Elisabetta Tinti Salati
Foto di Witch-Hunt Victims Empowerment Project ONG e di Elibetta Tinti Salati

Pino Schirripa è Professore Associato di Discipline Etno-antropologiche, Università La Sapienza, Roma
Elisabetta Tinti Salati è Antropologa sociale e culturale, Ricercatrice indipendente

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