Davide Campisi – Joca (Suoni Indelebili, 2021)

Ritroviamo le strade che Davide Campisi ama percorrere anche in questo nuovo album, intitolato in modo certamente ammiccante e volutamente ironico “Joca”. Sono le strade che chi si muove nel panorama musicale “alternativo” attraversa con fluidità e consapevolezza. Sono quelle che avevamo riconosciuto anche in “Democratica” e che qui si ampliano ancora di più: sia verso la tradizione (le tradizioni) sia verso le contemporaneità. Sì, perché questi due poli, queste due direttrici, sono molte volte la stessa cosa. O meglio possono rappresentare la stessa cosa: ciò da cui si proviene e ciò che ci ispira nella tessitura di un racconto artistico, ciò a cui si tende e in cui si riporta ciò che conosciamo: insomma sono il nostro linguaggio del nostro momento narrativo, la nostra voce che elabora un pensiero inevitabilmente multiforme. E, giocoforza, composito, plurale: appunto fluido e, possibilmente, consapevole. Il gioco delle parti tra tradizione e innovazione non vale più, proprio perché (come è saggio – e non retorico – tenere a mente) tutto passa e di eterno non vi è nulla. Così come tutto è eterno e nulla passa. Allora, da questa prospettiva, apprezziamo e comprendiamo la compresenza di temi inevitabilmente “presenti”, anche se altrettanto inevitabilmente distanti: come quelli evocati in “Maria jittau na vuci”, un lamento ripreso dalla tradizione espressiva dei rituali della settimana santa di Enna, e “Caminanti”, che evoca la catastrofe della migrazione contemporanea attraverso il Mediterraneo. Allora quel “gioco” che Campisi assembla attraverso i nove brani che compongono la scaletta dell’album riflette la coscienza che questo talentuoso musicista ha del proprio linguaggio. Un codice di espressioni (di musiche e di parole) che sembra quasi essere nell’aria, e che viene incardinato con raffinatezza in un incedere purissimo di suoni semplici e diretti, “magri” ma esaltanti, crudi e perfetti: perfettamente incastrati tra le parole che descrivono le molteplici contemporaneità che la musica può irradiare, con una semplicità pari alla necessaria fermezza. Da questo quadro – in cui fin dai primi ascolti si apprezza un impianto musicale risoluto e piacevolmente costruito sulla poetica dei tamburi a cornice, che dialogano con elettronica, chitarre, banjo, mandolino, organetto, tromba e armonica – emergono anche i richiami dell’infanzia. I quali sembrano avere (almeno) il duplice valore di trasfigurare la dimensione storica, cioè ciò che sappiamo essere stato, e di rappresentare quella di un futuro sempre presente, come in una multi-dimensione irriducibile, nella quale gli orizzonti (le strade di cui sopra) non possono che incrociarsi per riflettere uno spettro più profondo e denso, meno “naturale”, ovvio, assoluto, concreto. Nel presente musicale di Campisi queste due dimensioni sono costantemente spinte l’una verso l’altra, avvolte da ciò che sembra essere una necessità pressante: ri-significare i dati, elaborarli in modo che si combinino in contenuti non solo comprensibili, ma incisivi e condivisibili. La metafora del gioco – oltre a richiamare quella della musica – abbraccia organicamente la nozione di un tempo relativo, nella misura in cui ricalca un processo di stratificazione, dentro il quale il passato incide il presente. È un buon punto di vista per analizzare, ad esempio, le due filastrocche presenti nell’album, intitolate “Etica Peletica” e Cuccurucuntu”. Nella cornice di “Joca” divengono probabilmente elementi paradigmatici: sono solitamente antiche ma incessantemente rimaneggiate, e per questo incorporano l’ambivalenza di appartenere alla tradizione orale – a un patrimonio dato anche se cangiante – e allo stesso tempo ai bambini, cioè al futuro. 

 
Daniele Cestellini

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