Limitare l’orizzonte musicale di Paolo Bonfanti al solo blues e assolutamente riduttivo e certamente poco rappresentativo del suo percorso ultratrentennale. Dagli esordi con i Big Fat Mama ai dischi come solista, passando per le tantissime collaborazioni di livello internazionale con artisti del calibro di David Grissom, Jono Manson, Dick Heckstall-Smith, Bob Brunning, Fabio Treves, Gene Parsons e Beppe Gambetta, il chitarrista ligure ha dato vita ad un cammino artistico articolato nel quale ha spostato sempre più avanti i confini della sua ricerca musicale muovendosi ora nel grande universo della musica americana dal blues al folk alla old time music, ora nella canzone d’autore italiana. In particolare, nell’ultimo decennio, la sua discografia si è via via arricchita di lavori di grande pregio come “Takin' a Break”, “Exile On Backstreets” e il live “Back Home Alive” ma anche “Friend Of A Friends” e “Pracina Stomp” in coppia con Martino Coppo. Un crescendo rossiniano che si arricchisce di un altro capitolo con “Elastic Blues” album con cui festeggia i sessant’anni e che compendia l’insieme di tutte le sue passioni musicali. Pier Luigi Maria Auddino ha intervistato Paolo Bonfanti per approfondire insieme a lui questo nuovo lavoro. (Salvatore Esposito)
Il disco è stato registrato tra febbraio e agosto dello scorso anno, con una lunga pausa nei mesi del lockdown. La prima domanda è d’obbligo: com’è stato registrare un disco in piena “era Covid”?
È stato molto complicato ma anche molto divertente; bisogna tener conto che avevo già registrato qualcosa in gennaio, prima della chiusura ma mi sono di nuovo precipitato in studio l’11 maggio, non appena ho saputo che gli studi di registrazione erano compresi tra i codici ATECO delle attività che potevano restare aperte.
Il perdurare della pandemia ha messo in crisi l’intero mondo dell’arte e degli artisti che vivono delle proprie esibizioni. La situazione è drammatica soprattutto per gli artisti indipendenti, che non vivono certo nel solco del mainstream pop. Alcuni stanno provando a reinventarsi con esibizioni in live streaming oppure produzioni tramite crowdfunding. Cosa pensi di queste soluzioni? Hai anche tu dei progetti in questo senso?
Nulla da eccepire a chi sceglie eventi in streaming ma io sono convinto che si possa e si debba ritornare al più presto a suonare davanti ad un pubblico presente. Il crowdfunding mi è comunque servito molto visto che da fine ottobre è impossibile esibirsi dal vivo; la partecipazione è stata molto calorosa e la raccolta, devo dire, è andata aldilà delle più rosee aspettative. Forse il mio pubblico ha capito il momento di difficoltà ed ha partecipato in maniera massiccia. Anch’io però suonerò in streaming, in particolare per un locale di Genova dei cui gestori sono molto amico e che mi ha sempre incluso nella programmazione. In questo caso lo faccio molto volentieri.
Il disco è corredato da un corposo volume che è quasi un’autobiografia. La scelta di un libro allegato non è una scelta isolata [in altro ambito vedi il “Canzoniere illustrato” di Daniele Sepe ndr]. È anche un modo per cercare di superare la crisi della vendita dei cd?
Diciamo che l’idea è venuta a Claudia (la mia compagna) e anche a me è sembrata fin dall’inizio un’ottima iniziativa. Non so se possa essere uno dei modi per superare la crisi del cd però devo dire che le vendite sono continuate con ottimi risultati; abbiamo deciso di portarlo praticamente a mano in negozi di dischi veri e propri che costituiscono se vogliamo una forma di resistenza economica e culturale allo
strapotere della grande distribuzione, anche on line. L’unica piattaforma digitale su cui si può trovare Elastic Blues è Bandcamp, anche perché accorda percentuali sulle vendite ed i download evidentemente superiori a quelle delle altre piattaforme digitali.
Pensi che quella di associare la musica al libro sia una strada realmente percorribile per il futuro, per renderla un “oggetto” in qualche modo da conservare?
Può essere; e diciamo anche, senza nasconderci dietro un dito, che l’IVA al 4% è una comodità. Meglio non dilungarci sul profondo controsenso che accorda quell’aliquota ai libri e non ai dischi…e poi ci si stupisce della crisi!
Veniamo alla musica di “Elastic blues”. Il disco restituisce tutto il tuo spirito eclettico ed è obiettivamente difficile da etichettare. Gli artisti in genere rifiutano le etichette, a differenza, spesso, del pubblico. Come ti poni rispetto al tuo pubblico in questo senso? Fino a che punto un artista può assecondarne le aspettative, e fino a che punto può permettersi di “sfidarlo” cercando di portarlo verso altri lidi?
Si, è ovvio che in questo lavoro io abbia decisamente voluto uscire da tutte le etichette; non l’ho mai fatto in maniera così evidente in tutta la mia carriera ma, come si suol dire, c’è sempre una prima volta. Io tendo sempre a ragionare nel senso di tirare il pubblico dietro di me e non di assecondarlo, per cui i miei ascoltatori sono già abituati. Nel caso di Elastic Blues pensavo che per questa volta avrebbero dovuto fare uno sforzo sicuramente maggiore rispetto alle altre volte ma alla fine ho riscontrato, con piacevolissima sorpresa, che anche certi brani che possono risultare più ostici al mio pubblico medio sono stati accolti con favore. Certo, alcuni preferiscono, per esempio, i pezzi più acustici o cantautori ma anche cose come “Alt!” e “A o canto” hanno suscitato ottime reazioni. Insomma, anche se può essere rischioso, bisogna sempre provarci.
In questo disco ti sei avvalso della collaborazione di ben quaranta musicisti. Come hai coordinato il tutto? Quanto hai cercato di “orchestrare”, e quanto invece hai sfruttato della personalità di ognuno di loro?
Si, i musicisti coinvolti sono 40 in tutto (39 più il sottoscritto) registrati, contando gli home studios, in dieci studi differenti; alcuni brani (si può evincere dalle note di copertina) sono stati registrati magari in 3 o 4 studi differenti, in altrettanto differenti giorni. Coordinare il tutto è stato complesso ma mai difficile, alla fine. Devo ringraziare pubblicamente il mio fonico di fiducia, Davide Martini, che ha messo insieme il tutto con pazienza, precisione e dedizione. Avevo ovviamente idee di base in termini di arrangiamento ma molti brani sono venuti fuori e si sono costruiti quasi da soli, man mano che i vari musicisti coinvolti suonavano la loro parte. È stata una sensazione strana ma bellissima e tutti hanno contribuito in maniera eccezionale; a tutti devo un grandissimo “grazie”.
In molti brani tracce risalta l’apporto di Roberto Bongianino alla fisarmonica. Più di una volta si scivola in atmosfere quasi zydeco. Quanto è stata importante la collaborazione con lui?
Roberto, con la sua musicalità e la sua misura, è stato fin da quando è entrato nel gruppo una pedina fondamentale nella sua economia sonora. Avere una fisarmonica che però può suonare anche come un
Hammond o come una sezione fiati e può passare senza nessuna difficoltà dal rock al folk al jazz è un grandissimo valore aggiunto.
“Sciorbì/sciuscià” è il brano che mi ha colpito di più per la sua originalità. Una tua anima folk mai sopita che crea una sorta di “Atlantic bridge” [cit. omonimo disco di Davy Spillane ndr] tra gli USA e Genova. Beppe Gambetta, genovese anch’egli, si è cimentato più volte in prove simili. Quanto peso ha la tua origine genovese nelle tue scelte artistiche e compositive?
Si, Sciorbì si innesta su una sorta di filone di brani ispirati al suono cajun con testo in genovese di cui fa parte anche “Via da Zèna”, sul mio primo cd con Martino Coppo. È chiaro che “Creuza de mâ” ha sparigliato tutte le carte nel rapporto tra un certo tipo di musica e l’utilizzo del dialetto genovese. È dal mio primo mini cd in italiano, “Io non sono io”, che provo a cimentarmi col mio dialetto innestato su radici musicali USA (Blues, cantautorali o cajun). Mi sembra che l’esperimento, almeno per quello che mi riguarda, sia riuscito bene. Beppe, mio caro amico nonché maestro e mentore, è un cultore di Fabrizio per cui è quasi ovvio che si sia cimentato o si cimenti col dialetto genovese.
Il blues rock italiano si è sempre tendenzialmente tenuto alla larga da riferimenti e implicazioni politiche. “Fìn de zugno” rievoca invece un episodio drammatico della storia di Genova e dell’Italia
intera. Un vecchio motto del rock ai tempi dei Cream era “Forget the message, forget the lyrics, and just play”. E infatti lo hai cantato in dialetto genovese nella forma di una ballata folk. Com’è nata l’idea di rievocare un momento, per quanto grave, così lontano?
Io, alla fin fine, sono un vecchio marxista (anche se libertario) e per me chi scrive o fa musica non può prescindere dalla realtà che lo circonda; ho già scritto pezzi “politici” (se così vogliamo chiamarli) anche in inglese ma a “Zugno” sono particolarmente legato perchè alla rivolta del 30 giugno 1960 contro il congresso MSI a Genova ed il governo Tambroni hanno partecipato anche i miei genitori; io quel giorno ero già nella pancia di mia madre che, con mio padre, era lì. È anche una canzone che parla di come certe idee siano state abbandonate e tradite e di come si sia ridotto un paese che deve alla Resistenza la sua libertà, la sua democrazia e la sua costituzione repubblicana. Per me è una sorta di “Yesterday” genovese, ecco perchè ho scelto il quartetto d’archi delle bravissime Alter Echo.
Tu sei, insieme a Fabio Treves, Tolo Marton, Nick Beckattini, uno dei padri nobili di una stagione quasi eroicamente pioneristica di blues e rock italiano che, tra i ’70 e gli ’80, aveva visto affermarsi i anche compianti Guido Toffoletti, Roberto Ciotti e Rudy Rotta. Quanto sono cambiati in Italia la scena musicale blues rock e il pubblico in questi anni?
Si, diciamo che dopo i padri fondatori, Treves, Ciotti e Toffoletti (Tolo è della stessa generazione ma è un po’ una figura laterale al Blues) io sono uno dei più vecchi in attività insieme al mio amico Maurizio “Gnola” Glielmo. Il Blues in Italia è sempre vissuto attraverso alti e bassi ma ha sempre avuto il suo pubblico. Adesso, credo, siamo in un momento intermedio, di transizione. Vedremo che accadrà.
Il blues italiano è già sopravvissuto all’ondata punk, new wave, grunge… Oggi viviamo un’epoca dominata da generi musicali in cui i giovani si rivolgono sempre più a forme minimaliste e poco, o per nulla, strumentali. C’è il rischio, secondo te, di sentirsi un po’ come chiusi nella riserva indiana degli appassionati? Guardando avanti, quale futuro immagini per la scena del blues rock in Italia?
Il Blues è alla base di tutto; è come una casa sicura da cui puoi allontanarti a piacere ma alla quale puoi sempre tornare alla fine di ogni viaggio. Io, come avrai capito da questo disco, non voglio chiudermi in una riserva; sono sempre stato curioso, culturalmente e musicalmente, per cui non ho paura delle contaminazioni.
Sessant’anni e tanti dischi alle spalle. Cosa farà Paolo Bonfanti “da grande”?
Quest’ultimo lavoro è sicuramente un punto fermo ed anche uno spartiacque nella mia carriera. Come diceva il grande Joe Strummer, “the future is unwritten”; e chi sono io per negarlo?
Paolo Bonfanti – Elastic Blues (Rust Records, 2020)
Paolo Bonfanti celebra i suoi sessant’anni con un con un album che è un po’ la summa degli amori musicali di una intera vita. L’opera è accompagnata da un corposo volume, con l’introduzione di Guido Harari, che va ben oltre i consueti del booklet, ed è quasi un’autobiografia dell’artista, ricca di foto e ricordi di una carriera intera. Bonfanti si conferma soprattutto come autore: esclusa “Haze” dal repertorio di Bob Weir, i brani sono tutti autografi, incisi con un ampio cast di oltre quaranta strumentisti che partecipano idealmente, e concretamente, nel piazzare una candelina sulla torta del suo compleanno musicale. Già dal titolo “Elastic Blues” è un manifesto che ci trasporta immediatamente oltre la riduttiva etichetta di musicista blues. Il disco è, infatti, permeato da quell’eclettismo che lo ha sempre contraddistinto come autore, con i molteplici amori ai quali Bonfanti da anni ci ha abituato, dal blues al rock al folk. I brani, infatti, si alternano con una voluta sequenza che ci costringe ad un rapido sali-scendi tra i diversi generi. Troviamo momenti decisamente rock lo strumentale iniziale “Alt”, la già citata “Haze” fino alla quasi hard “Don’t complain”. “We’re still around” è un rythm’ ‘n’ blues che vede la reunion dei leggendari Big Fat Mama, pionieri del blues made in Italy con i quali Bonfanti ha attraversato gli anni ’80 prima della carriera solista. L’anima folksinger spezza spesso la sequenza elettrica dei brani e ritorna in “The noise of nothing” con un’atmosfera quasi floydiana per la linea melodica di un “accordion che sembra un organo”, impreziosita da un testo di grande intensità lirica. “In love with the girl” è una lenta ballata country, così come “Heartache by heartache” per sola chitarra voce (con una stilosa pedal steel di accompagnamento) e, sempre con calcolata alternanza tra i diversi brani, “Hypnosis”. L’anima folk di Bonfanti ripercorre a ritroso l’Atlantico per approdare nel porto di Genova con “Fìn de zugno”, una ballata in dialetto, quasi à la Woody Guthrie, sui disordini di Genova del 1960 [contro il governo Tambroni che aveva ottenuto l’appoggio del Movimento Sociale Italiano ndr]. C’è spazio anche per il jazz rock e gli ottoni di “Unnecessary activities” con una spruzzata di funk che dà il giusto brio al tappeto armonico per la parte solista condivisa con un elettrico Lucio “violino” Fabbri (filtrato da un poderoso utilizzo dell’effetto wah wah); mentre “A o canto” è una esplicita rievocazione del Miles Davis della svolta elettrica. Il blues vero e proprio arriva con “I can’t find myself”, un brevissimo shuffle alla maniera di Chicago che più classico non si può, interamente suonato da Bonfanti, necessario obolo al primo amore e alla linfa che ha animato la sua intera carriera, ma soprattutto un piedistallo per il solo del sempreverde Fabio Treves all’armonica. Nella sua brevità il brano però tira la volata a “Sciorbì/sciuscià”, che è una bella prova di blues zydeco cantato in dialetto genovese (in altri tempi qualcuno ricorda l’esperimento di blues napoletano dell’alter ego di Edoardo Bennato con Joe Sarnataro e i Blue Stuff?). La title track è un jazz blues nel quale Bonfanti, ancora una volta, non rinuncia alla fisarmonica di Roberto Bongianino e lascia spazio ad un assolo di chitarra di Matteo Cerboncini. “Where do we go” è, nelle parole di Bonfanti un incrocio tra “Van Morrison, David Crosby, ed Ennio Morricone”; se di Morrison si può riconoscere lo stile del cantato e dell’arrangiamento, e di Crosby l’inconfondibile coro, ammettiamo che ci sfugge però la parte Morricone. C’è un po’ di tutto in questo disco e, a ben vedere, il blues non la fa neppure troppo da padrone. Un lavoro che ad un primo ascolto può disorientare per la mancanza di un coerente filo conduttore fra le diverse tracce. Ma chiaramente non è questa l’intenzione di Paolo Bonfanti, che invece ci offre una carrellata dei suoi molti amori. Un disco forse un po’ ostico per chi conosce poco l’autore; certamente invece un piacevole resumè per chi ne ha seguito la carriera e ne ha sempre apprezzato lo sforzo compositivo e autoriale, sua innegabile caratteristica. https://paolobonfanti.bandcamp.com/album/elastic-blues
Pier Luigi Auddino