Nando Citarella & Tamburi del Vesuvio – Museca (AlfaMusic, 2020)

Il nuovo album di Nando Citarella e Tamburi del Vesuvio, intitolato meravigliosamente e perentoriamente “Museca”, ci investe con una grazia e una linearità straordinarie. Non che non ci si aspetti che l’autore parli chiaro e che, per farlo, attinga a un repertorio popolare vasto, modulato attraverso lo sguardo e le visioni di chi ne conosce strutture e riferimenti. Ma, nel lavoro di “adattamento” e, in molti casi, di nuova configurazione dei riferimenti musicali popolari (non solo napoletani), messi in connessione con composizioni originali ed evocazioni culturali anche lontane (Brasile, Cuba, Africa), il discorso “musecale” di Citarella ci appare così “naturale”, spontaneo, da divenire, dopo pochi ascolti, necessario e inevitabile, rassicurante. L’impianto generale dell’album appare saldato alla consapevolezza, rappresentata in modi differenti ma coerenti, che la musica debba riconnetterci a un orizzonte sempre ampio e organico. Nel quale Citarella riesce a tratteggiare una scena riccamente articolata, comprendente elementi storici e contemporaneità. Una scena che si rinnova proprio nello sguardo dell’artista, che ne coglie meraviglie e contraddizioni per immetterle in una dinamica non di mera “raccolta”, ma di nuova espressione e racconto. Nell’intervista che segue abbiamo voluto indagare i dettagli dei brani più rappresentativi di “Museca”, ripercorrendo insieme all’autore le idee, le persone, i fatti che lo hanno ispirato. Come si legge nella nota che introduce i tredici brani dell’album: “Chest’è ‘a vita ‘a storia ‘a Museca che noi vi proponiamo”. 

Partiamo da “Museca”, il brano che porta il titolo dell’album. È uno degli originali in questa scaletta densa e variamente articolata. È un brano di una bellezza limpida, che poggia su una melodia piacevolissima, in cui la tua voce dialoga con quella di Francesca Zurzolo e gli strumenti tessono un quadro sonoro ampio e multiforme. 
Sembra che si possa leggere come un omaggio a questo linguaggio infinito e, allo stesso tempo, come una riflessione su ciò che ne ispira le tante forme che assume. 
“Museca” (il brano) nasce qualche anno fa dopo tanti momenti condivisi assieme al maestro Carlo Mezzanotte (coautore del brano e fondatore con Mancini e Maltese degli Indaco), tanti concerti e piéces teatrali (piano e voce) fatte in giro per l'Europa e dopo varie esperienze tra Jazz, classico e popolare: l’idea di comporre alcuni brani con linguaggi e  forme che viaggiassero tra un respiro prog e l'incontro con ritmi tra Mediterraneo e Africa (il ritmo appartiene a una danza di ringraziamento del Cameroun), la lingua napoletana con l'inserimento poi di sound e scala d'a terra nosta hanno fatto il resto. Grazie anche a donna Francesca e al lavoro fatto con Giovanni Lo Cascio.

In generale l’album sembra un raccordo di esperienze e prospettive: suoni che si mischiano per definire un linguaggio fuori da ogni cliché e, è bene dirlo, anche da ogni tradizione fissa, zavorrata. Suonare e interpretare liberamente brani tradizionali (di tradizioni differenti) è, in fondo, come comporre brani originali, esprimendosi però dentro il linguaggio di quelle tradizioni? Quali sono le differenze più irriducibili tra queste due traiettorie?
La musica è fatta di colori, di respiri, suoni differenti che si toccano, si incontrano e da cui spesso nascono linguaggi diversi (ma sempre appartenuti a noi al di là dei cliché). I tanti viaggiatori che dal '600 hanno attraversato  il nostro paese, arrivati a sud si sono trovati davanti realtà che mai avrebbero immaginato esistessero ancora (a quel tempo). 
Non a caso Goethe nel suo "Viaggio in Italia" descrisse Napoli come città delle meraviglie, dei colori, dei suoni, dei sapori, delle genti, città sospesa tra Paradiso e Inferno. La mia (nostra) è una musica dove la Tradizione è grande ispiratrice, ma non è musica tradizionale, non è musica popolare (ma di ispirazione popolare senz'altro): è comunque parte della mia radice nocerina e dell'agro, ma anche napoletana, intesa come facente parte di quella scuola dove ho avuto la possibilità di studiare, pascolando in quella terra come l'altra mia mezza parte molisana (mia madre è di Pietrabbondante), dove tanti anni della mia adolescenza ho passato camminando nei boschi di quella terra magnifica (grazie a nonno Tommaso), che obbligava (e lo ringrazierò sempre) i suoi nipoti gruoss' e piccerill' ad andare con lui per conoscere i luoghi dove tutta la sua famiglia era cresciuta, procurando il carbone per le comunità dei paesi di quella zona dell'alto Molise. Ogni suono di questo disco nasce da esperienze (belle e brutte) vissute, praticate e poi raccontate. Alla fine le differenze irriducibili tra queste due traiettorie si trasformano e diventano Affinità (ci si riconosce sempre anche nelle più distanti culture).

Le varianti dell’album si possono individuare anche nella scelta dei repertori tradizionali che hai messo insieme e “in” dialogo. Come è avvenuta la selezione? Quali affinità hai cercato di sottolineare?
Partendo proprio dal primo brano della scaletta, “Rumba scugnizza”, ho voluto poggiare l'accento sul senso della Rumba, intesa (nel linguaggio musicale cubano) come conjunto, comunità che si incontra per rendere omaggio, festeggiare o invocare personaggi e divinità legate alla tradizione come alla religione (nelle sue accezioni popolari), permettendomi di rendere omaggio al grande scrittore, autore, attore, commediografo e cantore dei vicoli della Napoli primo Novecento quale è stato Raffaele Viviani, riscrivendola in un immaginario contesto tra Napoli e Cuba, due luoghi dove 'a Museca è vita. Proseguendo poi nella parte dedicata al Gargano (Garganica, la strada che attraversa la zona da promontorio a monte che ho percorso tutta a piedi da Mattinata a  Monte S. Angelo a S. Giovanni Rotondo poi  ancora Rignano, Garganico, Carpino e infine Peschici (scendendo la valle del Varano) tra Natura, Suoni, Differenze nel dialetto dei vari paesi, uniti però dallo stesso andamento ritmico tra maggiore e minore. 
La “Kopanitza Molisana” (ritmi zoppi e ritmi ternari, dedicata ai tanti pastori macedoni che da anni ormai lavorano sui monti dell'Abruzzo e del Molise prendendosi cura delle greggi), unita da un canto che mia nonna Giovanna (da cui ho imparato, originaria di Pietrelcina ma stabilitasi poi a Colle Meluccio), che amava cantare accompagnata dal figlio (Zio Ubaldo) all'organetto e che lei stessa ritmava con il tamburello. La Giuglianese rivista anni fa insieme ad Antonio Fraioli (Spakka Neapolis, Trio Vesevo) ma con al posto del Sisco il Violino, che fa da strumento principe sotto la spinta di tammorra, riq e davul, che spingono all'esasperazione invocativa la voce di donna Gabriella. Per arrivare alla fine al meraviglioso canto composto dal grande Milton Nascimento e dedicato ai Minatori di Minas Gerais (dopo il mio secondo viaggio in Brasile tra Recife Porto Galinha e Olinda, laddove il Carnavau si mostrava intenso e forte, profondo e antico attraverso i surdi dei suonatori di Frevo  Forrò e Maracatù), cui ho voluto unire  il canto sul tamburo alla disperata e di fatica dei nostri spaccapietre nelle cave e sui monti del nostro Appennino, dedicato a loro e a ciò che hanno ottenuto anche grazie a quelle forme di protesta, espressione narrata attraverso la musica.

Napoli, i tamburi “vesuviani”, la storia di personaggi e caratteri popolari che si guardano dentro un destino e una traiettoria comune, gli strumenti sudamericani, un “clima” musicale armonicamente extra-locale: storia e presente si mischiano come si mischiano i racconti, i suoni, gli spazi che evocano. Non è così che si conserva e si inventa, si produce cioè musica libera e “semplicemente” contemporanea?
Certo che sì, è proprio come affermi nella domanda, attraverso queste forme, queste storie, questi canti, questi ritmi integrati anche se a volte volutamente discordanti, tra presente e passato, guardando avanti e cercando di endorcizzare sempre di più quella radice di appartenenza, quella identità per anni non affermata o piegata da politica (guardiamo a cosa oggi accade per l'Arte e la Cultura), soprusi, imposizioni, differenziazioni di classi, ma sempre forte e profonda legata in primis all'espressione culturale, musicale, rituale e coreutica dei popoli. 

In modo più determinato rispetto ad altri brani, in “Makam por una Estrella” si affaccia l’idea di un Mediterraneo realmente circolare, al quale si guarda da prospettive differenti e con “impressioni” sempre nuove. 
Sono le voci e la poesia il grande elemento che giunge tutto?
“Makam” (forma di melodia nella musica classica araba o turca): è da questa prospettiva poetica e musicale che il Nostro Mare ha sempre unito le genti, dagli antichi linguaggi marinari con i quali comunicavano, antenati dell'Esperanto che per un periodo si volle introdurre in Europa (lasciando spazio poi all'inglese), dal Sabir alle lingue franche come in qualche modo anche la Parlésia che dal porto di una Napoli settecentesca si è introdotta nei vicoli fino ad arrivare ad essere lingua parlata (ancora oggi) dai musicisti con un gergo tutto proprio. E ancora, le voci che si rincorrono con i loro melismi e le loro forme poetiche, come in un racconto di Pierre Loti o in una novella di Pirandello, un romanzo di Raffaele Nigro o ancora un film dei Taviani dove i suoni degli idiomi ci rende fratelli.

Emergono con determinazione melodie vocali forti, decise e piene, ascoltando le quali la provenienza perde importanza a vantaggio della bellezza, della profondità del racconto: in “Suite Garganica” si tratteggia un momento di grande trasporto, in cui i testi tradizionali si insinuano in un andamento musicale ipnotico, che evoca la danza come elemento inscindibile.
La danza nella tradizione è sempre stata madre e conduttrice del rito. Nelle feste popolari il Cerchio Magico si crea perché unisce tutti: Suonatori, Cantatori, Danzatori e Assemblea, così il rito si compie creando quel che tu prima dicevi, l'Ostinato ripetersi del Ritmo (tamburo e castagnette) che scandisce il
tempo e rende ipnotico il Cerchio tutto. Infatti si entra e si esce cercando e dimenticando, vivendo l'attesa e il dopo in egual maniera. Te lo porti con te per giorni e giorni dentro e fuori (e tutto questo è reale).

Chi prende in mano questo album ha anche la possibilità di leggere le note di studiosi e esperti che introducono ogni brano. L’idea è molto bella perché contribuisce a definire una coralità già presente nella musica. Pensi che i brani, soprattutto quelli tradizionali, abbiano bisogno di essere contestualizzati per essere fruiti e compresi oggi? 
Ho fatto questa scelta volendo proprio condividere con amici esperti del settore, ognuno da una diversa prospettiva. Ogni Poeta appartiene al suo tempo così come Ogni Poesia: in un cammino fatto con Erri De Luca (sull'Appennino Parmense) lui affermava che "La Parola nel momento in cui viene prodotta ed esce dalla bocca di chi la pronuncia è già Futuro”. Chi vive la tradizione nella festa stessa, come nel luogo stesso ove la festa si produce, la vive e nulla più. Il dopo è altro. È stato molto bello e formativo per me chiedere ad amici (studiosi, professori, artisti, architetti, musicisti e scrittori) con cui tanto ho condiviso e da cui tanto ho appreso, semplicemente mettere in parola le loro sensazioni ed emozioni dopo l'ascolto del brano a loro affidato in cunzegna.

Trovo molto in linea con ciò che ispira l’album (pienezza, profondità, ricchezza di ispirazione) l’utilizzo della formula della suite, in cui riesci a convogliare immagini e sensazioni distanti ma piacevolmente organiche. Tra queste “Os tambores suite” è quella che più mi ha colpito, insieme a “Suite Ciro’”. Puoi parlarci di questa scelta?
Sono due brani cui mi sento molto legato. Anni fa (a New York, dove ho vissuto per un bel periodo, per studio e lavoro con la Commedia dell'Arte e le sue maschere, collaborando con I Giullari di Piazza di Alessandra Belloni e John La Barbera), nelle scorribande musicali ascoltai in un club del West Village (S.O.B. sound of Brazil) un concerto di Milton Nascimento e Wayne Shorter (c'erano anche Airto Moreira e Flora Purim) e rimasi affascinato da quelle mescolanze di suoni e voci che crearono (ho iniziato a seguire e seguo ancora questo gigante della  musica brasiliana). Anni dopo a Roma lo rincontrai e gli chiesi se potevo prendere in prestito e proporlo, visto dal mio Sud, un suo brano (“Os Tambores de Minas Gerais”). La cosa rimase lì finché poi, qualche settimana dopo, mi arrivò un'email da parte della sua segretaria che mi accordava il permesso per l'utilizzo anche su disco (era il 2007). Finalmente ho avuto questa grande e bella possibilità di poter cantare e suonare in un brano di tale intensità che parla di Fatica e di Popolo, oltre che di radici (anche un po’ comuni), unendo così due mondi distanti ma simili nell'espressione del disagio attraverso la musica. Per “Suite Cirò” invece vi è un fatto vissuto personalmente agli inizi degli anni '80, durante una tournée e una ricerca sul campo in Calabria insieme a Francesco Manente (andato via da quaggiù molto presto) e alla sua band, con cui  incidemmo “Dindirinnella” (il suo, come il mio, primo LP da suonatore di tamburello e voce non solista). Proprio a Cirò si usava cantare alla cirotenedda e c'era un cantatore che accompagnandosi con la sua Battente ci raccontava di un giovane medico di un paese vicino, Cirò, che aveva idee rivoluzionare e che alla metà degli anni '50 partì per Cuba, dove riuscì ad incontrare (si racconta eh!!! ma voce 'e popolo....) Ernesto Che Guevara. Ed ecco il perché di questo omaggio da sud a sud. Le storie appartengono alla tradizione (vere o immaginarie esse siano).

Uno dei messaggi di “Museca” può essere a favore della coralità, dell’incontro, del lavoro insieme. È perfettamente sintetizzato in “A vita è musica”, in cui i numerosi musicisti intervengono quasi in dialogo con noi ascoltatori. Pensi che in questo periodo di costrizioni e isolamenti il messaggio riesca a veicolare in pieno la sua forza?
La Musica ha sempre inviato messaggi chiari e forti, sia nel Lavoro, sia nella Protesta, sia nell'Amore, sia nella Poesia, così come nella Tradizione e, come dicevamo prima, la Festa non è tale se non c'è condivisione, nel bene e nel male, nelle cose belle come in quelle brutte, nella felicità come nella tristezza. Una cosa è certa, la Tradizione, con i suoi riti, con le sue espressioni, con le sue radici, è fatta dal Collettivo e non dal Singolo. Sennò che festa sarebbe?  Musica è condivisione! 
Un grazie a tutte e tutti i musici: cantori, cantatrici, poeti e appassionati che hanno collaborato a questo progetto in epoca di pandemia; cu Core, Arte, Amicizia e Museca. Graziassaie e Speramm' semp'a Marunnella Nosta. Non fermiamo l’arte… è indispensabile per la salute mentale, fisica e sociale e per il benessere di ogni persona.



Nando Citarella & Tamburi del Vesuvio – Museca (AlfaMusic, 2020)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK
 

Un tributo alla musica e allo stesso tempo una riflessione musicale sull’orizzonte popolare contemporaneo. Anzi, sugli orizzonti popolari che si incrociano – oggi come ieri – davanti agli occhi di Nando Citarella, che canta la “museca” della sua Napoli e della Napoli degli altri, come un paradigma di contaminazione, che diviene anche l’emblema di un sincero disincanto e, allo stesso tempo e con la stessa vulnerabilità, il volano di una visione musicale che si rinnova ciclicamente. Rinnova da cosa? È musica e, come si dice nell’intervista, fa parte delle meraviglie che si stratificano in un luogo e che si trasformano incessantemente (il primo brano in scaletta, “Rumba degli scugnizzi”, in cui si costruisce un dialogo tra la narrativa di Viviani e la musicalità cubana, è un manifesto di questo approccio). Vi è un movimento persistente che abbraccia, nel suo gesto permeabile, ogni cosa con cui entra in contatto. Vi è una visione musicale che non può che essere condivisione e che non può che assorbire, con fluidità (senza sforzi), ogni pensiero, nella convinzione che anche solo osservando con pazienza e attenzione si individuano gli snodi fondamentali di un “sentimento” musicale libero e influente. Che nulla ha a che fare con il genere: ha solo a che fare con le formula magica dell’incontro, di una rinascita che la narrativa popolare (questa volta sì, perché dentro può entrarci il jazz, il Brasile, Cuba, i tamburi vesuviani, il teatro, i dialetti) vive come un racconto continuo: che tutti contribuiscono a scrivere e che di tutti può scrivere. Il nuovo album “Museca” di Citarella e Tamburi del Vesuvio si configura, così, come una raccolta in movimento – un passo musicale verso un nuovo corso – e come un grande romanzo, dentro cui le immagini trovano una forma temporanea e, allo stesso tempo, estremamente convincente. Temporanea perché parole e musiche sono fluide, sebbene incastrate in una visione chiara e (verrebbe da dire) letta attentamente dall’autore, in modo che ogni elemento possa trovare il suo posto in armonia con l’insieme dei suoni e delle evocazioni dell’album. Convincente perché, come si può leggere in molti passi dell’intervista (nella quale Nando ci trascina nel suo “modo” musicale privo di ostacoli e pieno di impressioni forti), il lavoro si è sviluppato lungo il filo della confluenza. In questo caso specifico, la confluenza ha determinato un profilo così articolato dell’album, che sembra di ascoltare una lunga favola, calibratissima, fantasiosa e perfettamente calata nelle numerose articolazioni culturali ed espressive della realtà in cui viviamo. Vi è però  anche una confluenza di intenti, nel quadro di una cooperazione e di una compresenza di “voci” che, nel loro insieme, danno conto delle tante stratificazioni dell’oggetto in questione. In questo modo lo svolgimento pieno dei tredici brani di “Museca” prende forma nell’insieme di più livelli narrativi. Da un lato, come abbiamo in parte visto, articolando linguaggi musicali differenti nel segno della contaminazione e di un’ispirazione estranea ai vincoli formali: in questo quadro ascoltiamo diverse suite e assistiamo alle diverse possibilità (citarelliane) attraverso cui i linguaggi musicali possono mescolarsi (“Kopanitza molisana”, “Os Tambores Suite/ Los Tambores de Minas Gerais/ Fronna ‘E Tambor”, “Rumba scugnizza”). Dall’altro lato, rafforzando l’idea della condivisione, attraverso la parola scritta di soggetti legati al mondo della musica (studiosi, giornalisti, ma anche amici musicisti), che introducono i brani con considerazioni personali. Aggiungendo cioè altri codici, lasciando così che l’album si configuri anche come spazio in cui affrontare una riflessione ulteriore. L’idea è interessante non perché imprime al messaggio degli elementi (scritti e quindi ponderati) volti a consolidare il testo generale, o i significati che questo veicola. Ma perché ne irrobustisce la forma. La quale, in questo modo, diviene più avvolgente, piena e convincente. Così (potremmo dire) il racconto di Citarella si completa: “la musica è gioco sì, ma è anche studio, lavoro, ricerca, fatica e pure gratitudine (e in questo tempo di sospensione e clausura, abbiamo anche avuto conferma di cosa significhi per molti fare e produrre arte e cultura). Ma, nonostante tutto, pe’ me ‘a vita è musica… e vuie site ‘a vita mia”.


Daniele Cestellini

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