Songhoy Blues – Optimisme (Transgressive Records, 2020)

Terzo album in otto anni per Garba Touré, Aliou Touré, Oumar Touré e Nathanael Dembélé dalla loro base a Bamako dopo che i venti di guerra li hanno costretti ad abbandonare le loro case nel nord del Mali. I titoli dei primi due album “Music In Exile” (2015) e “Résistance” (2017) raccontano lo spirito costruttivo con cui affrontano questi anni duri. Il primo album era nato dall’incontro a Bamako a fine 2013 con il produttore Marc-Antoine Moreau e poi con Damon Albarn e Nick Zinner in una delle tappe di Africa Express. La forza della loro volontà e delle loro chitarre elettriche li ha portati per questa terza tappa discografica negli studi Strange Weather a Brooklyn, per una settimana di registrazioni con Daniel Schlett come tecnico del suono e Matt Sweeney come produttore, già a fianco di Iggy Pop – che, guarda caso, faceva capolino in “Sahara”, desert blues incluso in “Résistance”. Il nuovo disco si presenta con “Badala”: batterie e chitarre targate USA, a cavallo fra ZZ Top e Aerosmith, a tutto gas. Insieme a “Dournia”, “Worry” e “Barre” è stata anche al centro di un recente concerto trasmesso da KEXP. Il titolo riprende un modo di dire, “ir badala”, che in songhai suona come "non me ne frega niente". Il video promozionale viene presentato – è il caso anche di “Gabi” - come un omaggio alle giovani che mettono in discussione patriarcato e controllo sociale: le immagini mettono al centro soprattutto il gruppo che si spara le pose dal vivo, prima che i cattivi di turno, questa volta un gruppo di motociclisti, interrompano il concerto. Garba Touré la mette così: “La nostra identità sta nell’energia. Qualunque cosa facciamo, ovunque andiamo, le persone identificano Songhoy Blues dall’energia. Anche se i versi sono tristi o freddi, sappiamo leggerne i paradossi e ricavarne energia, che è quella che fa sentire insieme le persone, prima ne cattura l’attenzione e quindi comunica loro il nostro messaggio”. Il suo brano favorito è “Worry”, il primo cantato in inglese. Si rivolge ad un ragazzino, un modo per parlare alle nuove generazioni, ai leader di domani, chiedendo loro di “essere ottimisti, mantenendo l’autocontrollo e i piedi per terra, in modo da saper affrontare i tempi bui mirando a trovare la propria luce, in modo rispettoso per l’umanità, la natura, per tutto e chiunque, senza perdere la testa, evitando le assurde guerre che coinvolgono oggi tutta l’umanità. Chiede di non arrendersi mai: alla fine troverete la luce”. “Barre”, cantata in lingua songhai (con sottotitoli in francese e in inglese nel video promozionale), è un punto di sintesi fra ritmi quadrati ed incalzanti, la via elettrica dei Songhoy al blues-rock maliano e un vitale intreccio fra voce solista e messaggi cantati in coro. Spiega Aliou Touré: “Barre significa cambiamento. Abbiamo bisogno di cambiare. Nella canzone invitiamo i giovani a coinvolgersi nella vita politica e ad andare a governare, a portare cambiamenti, perché sono i giovani a capire le sfide che davvero abbiamo davanti. È l’unica via. Il problema in Mali è che il Paese è ancora governato dai personaggi degli anni Sessanta, quelli che controllano tutto. Bisogna dare al domani una possibilità: ‘Youth! Let’s rise for this change!/ Just as Yesterday knew how to welcome Today/ Just as Spring knew how to welcome Summer/ And Summer knew how to welcome Winter/ Old age must welcome Youth’. Con questi versi ricordiamo come siamo chiamati a rispettare e ad accettare la natura ciclica di tutte le cose. La vecchia generazione deve far spazio alla nuova, soprattutto in Mali, ma, ad essere onesti, in tutta l’Africa”. La lotta quotidiana di chi prova giorno per giorno a contribuire alla propria comunità, un richiamo a chi cerca di dividerle ed un invito a ritrovare l’empatia verso il prossimo sono al centro dei vivaci desert blues “Assada”, “Fey fey” e “Dournia”. Ma c’è ottimo spazio anche per il lato acustico, in “Bon bon” che mette in guardia rispetto alle facili promesse e nella conclusiva e dolce “Kouma”. 


Alessio Surian

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