In questo fine novembre saranno passati quarantasei anni da quando se n’è andato. Da qualche mese il Consorzio Autori Del Mediterraneo ha realizzato “Il Delicato Mondo di Nick Drake”, tracciato emozionale fatto di storie, canzoni e poesie. Un libro/CD che rappresenta il canto corale di una serie di musicisti, poeti, scrittori, giornalisti e critici coordinati da Roberto Molle, come fosse un “sasso gettato nello stagno dell’oblio” (dall’introduzione al volume). Ebbene, questo è un rischio che è stato oramai definitivamente scampato da tempo. Nick venne dapprima ignorato e poi accantonato a causa di impietosi e brucianti insuccessi commerciali, nonostante uno stile chitarristico originalissimo e complicato che nessuno saprà mai da dove arrivò, forse un po’ come per Robert Johnson. In effetti quando sparì dal Fitzwilliam College dell’Università di Cambridge strimpellava la chitarra alle feste studentesche e quando riapparve in uno studio di registrazione, possedeva una favolosa tecnica professionale, oltre ad una vena compositiva stupefacente. Una miscela di folk inglese, blues, musica classica assolutamente originale, con strutture su tempi dispari dove il canto inizia in punti insospettabili e la melodia è pronta ad offrire inediti corridoi armonici. Chissà se Ashley Hutchings non lo avesse casualmente ascoltato, rimanendo folgorato, durante quel lontano ballo di laureandi nella sala studentesca al May Balls, in mezzo a risate ubriache e brindisi, una delle rarissime volte che Nick si esibì pubblicamente...chissà se Joe Boyd, vendendo la Island Records, non avesse obbligato per contratto Chris Blckwell a tenere eternamente in catalogo i suoi dischi… La sua figura schiva di cantautore durò l’attimo di quattro anni, solo qualche collega come John Martyn se ne accorse ma non si può andare contro “aria solida”, in quegli anni erano tutti presi da Joni Mitchell, Carole King, Donovan… troppo ingombranti per lui, anche se era un ragazzo atletico e bellissimo: alto un metro e novanta, i tratti del viso angelici.
Ma sempre preceduto da un’ombra nera. E così si perdeva a fissare un punto del pavimento o del soffitto, senza dire una parola, posseduto dal terrore dell’idea di non saper comunicare agli altri la sua sanguinante interiorità. Poteva sedere su una sedia per ore con le mani congiunte a rimirarsi le scarpe, stare immobile nel buio più totale o osservare fisso fuori dalla finestra. Viene alla mente Fernando Pessoa (Bernardo Soares) quando nel “Libro dell’Inquietudine” dice: “...la solitudine mi deprime, la compagnia mi opprime...in ogni goccia di acqua la mia vita fallita piange nella natura. C’è un po’ della mia inquietudine nel goccia a goccia, negli acquazzoni con cui la tristezza del giorno si rovescia inutilmente sopra la terra...mi siedo alla porta e imbevo i miei occhi e orecchi dei colori e dei suoni del paesaggio e canto sommessamente solo per me vaghe canzoni che compongo nell’attesa...”. Ai suoi tempi il compagno d’etichetta Cat Stevens sbancava le classifiche in un impietoso paragone di vendite, il mercato discografico inglese era alle prese con rock duro, psichedelico o progressive, nel resto del mondo Bob Dylan raggiungeva il suo zenith elettrico. Lui nel frattempo amava Tim Buckley, il romanticismo inglese e la poesia simbolista francese. C’è una cosa curiosa che non tutti probabilmente conoscono. Nel 1970, Joe Boyd, entusiasta dopo il primo disco di Drake pensò di ritagliare per lui una carriera d’autore di canzoni e di realizzare a questo scopo un disco promozionale con quattro pezzi tratti da quell’esordio. Formò per l’occasione un gruppo originale con alcuni giovani musicisti scelti dal suo giro, ovvero Simon Nicol (dei Fairport Convention) alla chitarra, Jim Capaldi (dei Traffic) alla batteria, Pat Donaldson al basso, Linda Peters (non ancora sposata Thompson) ai cori e Reg Dwight (Elton John) alla canto e al pianoforte. Quest’ultimo era parecchio ricercato come turnista e infatti il risultato fu notevole ma è grottesco solo pensare che la linea della storia abbia contemplato un punto d’incontro tra Nick e l’uomo le cui vendite di dischi, in un certo momento di quel decennio, rappresentavano addirittura il 2% di quelle mondiali. Prima della lussuosa raccolta completa “Fruit Tree”, nessuno aveva mai prodotto un cofanetto antologico che non fosse di musica classica o di jazz. Oltretutto fino alla fine degli anni
70 i dischi di Nick Drake non li comprava quasi nessuno e fino a metà anni 80 non si parlava di lui.
Chi lo amava custodiva con cura i suoi tre LP, li ascoltava intimamente, il più delle volte da solo dentro stanze chiuse, quasi con gelosia, sovente con empatia.
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