Fratelli Mancuso – Manzamà (Squilibri, 2020)

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Non è la prima volta che su queste pagine incontrate i fratelli Enzo e Lorenzo Mancuso: potrebbe essere altrimenti? Musicisti, poeti, uomini di teatro, la loro è musica della memoria non museificata, che ha preso le mosse da una grande tensione civile e politica nonché dall’urgenza di affrontare e superare l’alienazione della migrazione. Negli anni la loro vicenda umana e artistica è diventata ricerca e reinvenzione della tradizione orale vocale e musicale siciliana, dialogo costante con altri maestri non solo nel campo musicale, segno di appartenenza che non si è mai tradotta in immobile chiusura identitaria. Canzoniere del tempo, radicalità del canto non compiacente, canto profondo di corpi stretti nell’abbraccio, voci nude e congiunte dal timbro penetrante e risonante, suono “osseo e di pietra” che genera espressività intima e solenne. Anche gli strumenti con cui si accompagnano, frutto d’incontri e di viaggi lungo il Mare Mediterraneo, sono di volta in volta sostegno e dialogo con le due voci-strumento. Le illuminanti e poetiche righe autografe che aprono il libretto di “Manzamà” (Squilibri, 2020), album che giunge a dieci anni dal loro ultimo disco di inediti, valgono più di un trattato, introducono alle musiche del disco riprendendo proprio una parte del discorso pronunciato in occasione della cerimonia di conferimento ai due fratelli polistrumentisti di Sutera (e a Emma Dante) da parte dell’Università di Messina del dottorato honoris causa con la metafora del canto come “fratellanza”: “alternanza di respiro e di memoria che tiene viva la brace della voce e nella sua incandescenza si fonde in un unico suono, gemito, espressione”. Disponiamoci all’ascolto di Enzo e Lorenzo Mancuso. (Ciro De Rosa)

La vostra attività musicale comprende sia concerti e impegni discografici, sia collaborazioni in ambito cinematografico e teatrale, spesso caratterizzati da un esplicito impegno civile. Come dialogano questi due versanti del vostro lavoro artistico?
Lorenzo ed Enzo Mancuso - La nostra attività musicale ci ha dato la possibilità di dialogare col teatro e con il cinema, cosa che ci ha messo un po’ sotto i riflettori, mentre abbiamo scelto di coltivare la musica per toccare in modo intimo corde profonde dell’animo, sia quando componiamo, sia quando cantiamo. L’impegno sociale viene da lontano. Negli anni Settanta a Londra dove eravamo emigrati, la sezione italiana del partito comunista Carlo Levi, era ospitata a casa nostra e, dato che vivevamo in due stanze, ci riunivamo nella stanza da letto. I compagni si sedevano sui letti, non c’erano sedie a sufficienza. È stato un periodo di formazione politica, ma anche culturale che ha segnato il versante civile della nostra storia, anche musicale. Per noi è sempre presente nella nostra musica: coinvolge un versante importante della nostra storia, legata ai paesi dell’interno della Sicilia, una storia condivisa con tante persone, con gente di cui forse non rimarrà traccia, se non in questo tipo di testimonianze musicali e orali, che cercano di trasmetterne l’umanità.

Siete sensibili ai mondi delle migrazioni e questo riguarda anche la vostra storia personale: in che modo questa dimensione attraversa le vostre composizioni e modo di far musica?
Lorenzo ed Enzo Mancuso - La fabbrica, l’alienazione, le migrazioni sono tre temi che hanno segnato le nostre vite. In questi ultimi anni sono migliaia e migliaia le persone scomparse nel tentativo di arrivare in Europa. In “Manzamà”, nel testo di “Animi”, ci sono solo i nomi di persone che erano, di fatto arrivate, ma sono perite proprio nell’ultimo tratto del viaggio, nell’ultimo tratto della loro esistenza. Perché l’abbiamo scritta e cantata così? 
Perché sentivamo che erano state spese già tante, troppe parole e immagini in proposito. Eppure, la nostra capacità di partecipare con passione al destino di queste persone sembra scemare. Va quindi sgombrato il campo da qualsiasi tentazione retorica. Abbiamo cercato di riportare in primo piano l’identità di quelle persone: cosa potevamo fare se non trasformare il canto in una sepoltura degna? Questa domanda ne contiene un’altra: come nascono le canzoni? Una canzone nasce nel momento in cui qualcun altro la sta ascoltando, in cui è partecipata. Finché si prova in casa non è ancora un fatto che si sia generato. Viene partorita nel momento in cui gli altri l’ascoltano.

Vorreste raccontarci dell’incontro e delle collaborazioni con Joaquin Diaz?
Enzo Mancuso - Ci siamo conosciuti all’inizio del nostro ritorno in Italia negli anni Ottanta, dopo il periodo d’emigrazione in Inghilterra. Ci eravamo trasferiti in Umbria, a Città della Pieve, sperando di trovare lavoro, ma di lavoro ce n’era poco. Nel frattempo, avevamo trovato il modo di proporre le nostre canzoni dal vivo, in duo. Dopo i primi concerti all’estero, nell’85 abbiamo tenuto un concerto in Spagna a Soria, in occasione di un congresso sulle musiche di tradizione popolare. Conoscevamo musicisti come Amancio Prada, Paco Ibañez, ma non avevamo ancora ascoltato Joaquin Diaz. Alla fine del nostro concerto Diaz ci venne a salutare, si congratulò con noi e ci chiese se avessimo un disco. Non l’avevamo. Allora si offerse di chiedere alla sua casa discografica, la TecnoSaga, di farcelo registrare. Era agosto e a novembre già aveva organizzato la seduta di registrazione e soprattutto una serie di concerti in Spagna per provare le canzoni prima di andare a registrarle in studio. 
Questa combinazione di concerti e seduta di registrazione al termine del tour funzionarono così bene che registrammo tutti i brani di “Nesci Maria” in studio in un solo giorno. Con lui abbiamo registrato anche altri due dischi. Nei nostri confronti è stato una persona sempre in ascolto, sempre disponibile, lo ringrazieremo sempre. Nel preparare il nuovo disco siamo stati a trovarlo a Ureña, in provincia di Valladolid, dove abita e dove c’è la fondazione che porta il suo nome, e insieme a lui, a casa sua, abbiamo ascoltato alcuni brani di “Manzamà”.

È passato un bel po’ di tempo dal vostro ultimo lavoro discografico, “Requiem”. Com’è nata l’dea che ha portato a “Manzamà”?
Lorenzo Mancuso - “Manzamà” è maturato in quasi dodici anni. Le canzoni parlano di quello che abbiamo vissuto in questo lasso di tempo. Non è stato un lavoro facile, interrotto da vicende personali che ci hanno segnato e ferito. Alla fine, ci siamo fatti forza e abbiamo voluto dare un nuovo impulso al nostro percorso musicale. Ogni canzone segna un momento diverso, mantenendo sempre una specifica attenzione per le radici, per il solco della tradizione da cui proveniamo, anche se quest’ aspetto può non essere sempre esplicito. C’è un innamoramento che non ci ha mai abbandonato per la parola, per costruire il verso in modo che rifletta profondamente i nostri sentimenti. Quando affondi la lama nella carne della parola e della musica, non è facile poi parlarne: chi scrive una canzone sente di aver esaurito quel tema, di aver già detto tutto proprio quando sente di aver ultimato la composizione. Parlarne sembra quasi rovinare il lavoro fatto. 
Queste nuove canzoni cercano di toccare più profondamente la nostra esistenza e il nostro modo di rappresentarci. È un disco difficile, che ha bisogno di ascolto e di essere capito, non cerca di trasmettere messaggi accattivanti o allegri. Ci è sembrato giusto rappresentare questo momento della nostra vita.

Come collaborate fra voi e con l’ampio ventaglio di musicisti coinvolti nell’album? Volete raccontarci alcune di queste collaborazioni, come sono nate e che ruolo hanno nel disco?
Enzo Mancuso - È difficile spiegare l’atto creativo: a volte la musica la incontri per caso, più spesso nasce perché testardamente inseguita. La ricerca fa sì che qualcosa ti rimanga fra le mani e quel qualcosa, nel condividerlo con l’altro, prende forma e si riverbera nelle nostre vite. È l’incontro fra una cifra personale con la personalità dell’altro, stando attenti a fare in modo che queste due sensibilità si compenetrino. In genere, abbiamo un’idea vaga su come potrebbe suonare un brano nella sua versione in studio. Partiamo da una prima idea per capire chi potrebbe interagire con noi per dargli forma. Sappiamo che non è facile interagire con noi: siamo una sorta di monolite d’intimità familiare, ma abbiamo avuto la fortuna di incontrare musicisti che hanno saputo condividere con noi la loro sensibilità.
Lorenzo  Mancuso - Franco Battiato si è gentilmente offerto di prendersi cura degli arrangiamenti del quartetto d'archi in “Occhi di Vitru” e “Un Velo d'aria”, “Rosa di carta” e “Lassami dormiri”, mentre Aldo Giordano ha arrangiato quattro brani, “Ti Canusciu Ferita”, “Li Suonni”, “Animi”, (dove suona il piano), “Manzamá”, e ha ultimato con noi le registrazioni e il mixaggio nel suo studio a San Cataldo in Sicilia. 
In tanti hanno suonato con noi, Marco Betta al pianoforte in una sua composizione con il testo di Enzo “Cori miu”, dai fiati di Mario Arcari al violoncello di Giovanni Sollima e Francesca Bongiovanni, Peppe Frana ai liuti e Mosè Chiavoni al clarinetto.
Enzo Mancuso - Poi c’è una piccola meraviglia, la lira organizzata. È successo che siamo stati ospiti del nipote di Joaquin Diaz, Gérman Diaz, virtuoso della ghironda. Casa sua è un autentico museo di strumenti musicali. Fra gli altri strumenti, abbiamo incontrato la lira organizzata, costruita da un liutaio viennese: il suono ci ha colpito e gli abbiamo chiesto di suonarla insieme alla ghironda nei brani “La scinnuta” e “Nti la nacuzza”. Una fortuna insperata che porta nel disco la sua straordinaria sensibilità musicale. Una collaborazione importante è poi quella con il pittore Beppe Stasi che ci è stato suggerito da Squilibri. Con lui il lavoro ed è avvenuto a distanza, confrontandoci per telefono e tramite mail. È stato bravissimo ad ascoltarci e a venirci incontro. Il risultato è stato davvero ottimo, ha un talento e una tecnica straordinaria. La sua raffinatezza è unica e sa raccontare con i suoi acquarelli gran parte del contenuto musicale che si trova nel disco.

Quasi vent’anni fa avete dedicato un album a Sutèra, il vostro paese natale. In che modo il legame con la Sicilia e con Sutera attraversa i nuovi brani? Sarebbe pensabile oggi un nuovo album che accosti brani vostri alla tradizione orale locale di Sutèra?
Enzo e Lorenzo Mancuso - Nel nostro paese non è più possibile. Siamo stati fortunati a poter registrare vent’anni fa in chiesa e nelle campagne quelle persone che oggi non ci sono più. I giovani non hanno avuto la forza e la sensibilità di raccogliere questa tradizione. 
Per noi sentire quelle voci prima da bambini mentre giocavamo in piazza e poi poterle registrare da adulti è stata un’esperienza magnifica. Siamo contenti che almeno ci sia questa importante testimonianza.

In che modo proporrete “Manzamà” - e in generale la vostra musica - in concerto nei prossimi mesi?
Enzo Mancuso - Stiamo vivendo un periodo che non è tra i migliori. Abbiamo l’intenzione di portare il disco in concerto, anche se in una versione più intima ed essenziale, cifra che, in genere, il pubblico che ci segue apprezza. Vediamo cosa succede nei prossimi mesi, per ora vediamo parecchie nubi.
Lorenzo Mancuso - Anche in tempi di pandemia la musica avrà il ruolo che ha sempre avuto, quello di provare a farci traghettare da un posto all’altro, cercando un orizzonte con meno nuvole.
Enzo Mancuso - La musica ci ricorda che, qualsiasi sia il momento che stiamo attraversando, abbiamo un’anima che dovremmo sempre ascoltare, qualsiasi siano le condizioni: un’anima che dovrebbe ispirare ogni nostro sforzo.

Per concludere, qual è il vostro rapporto con gli strumenti che suonate e che sono presenti nel disco?
Enzo Mancuso - Vivo periodi d’innamoramento per determinati strumenti. Al di là di queste passioni, lo strumento con cui compongo è la chitarra, con cui mantengo un rapporto di amore e odio, anche per la costanza e l’esercizio che richiede. Gli altri sono strumenti che rimandano a incontri fortunati, dal violino al sipsi, strumento pastorale turco ad ancia semplice. Sono strumenti che dentro di me lasciano una voce che viene a galla attraverso il mistero della musica e che sa restituirti al momento opportuno la familiarità che hai stabilito con quello strumento. Mi ritengo fortunato ad aver trovato questa facilità di approccio a strumenti diversi.
Lorenzo  Mancuso - L’harmonium indiano l’abbiamo adottato da vent’anni, è già in due brani dell’album “Bella Maria”. Lo comprammo in un negozio vicino ad Arezzo e, da allora, ci sostiene come un bordone, una terza voce: ci aiuta ad arrampicarci per arrivare dove non arriveremmo se non ci fosse lui. È il terzo fratello.


Alessio Surian

Fratelli Mancuso – Manzamà (Squilibri, 2020)
Con i fratelli Mancuso parlare di musica è forse più semplice. Innanzitutto perché le loro produzioni – e tra queste il nuovo album “Manzamà” non fa certo eccezione – suggeriscono sempre un approccio ravvicinato, uno sguardo necessariamente libero da ogni congettura, attraverso il quale è inevitabile toccare il nervo vivo di ogni singolo fonema. Sembra quasi che non si possa parlarne senza essere impollinati dall’armonia delle loro parole, dall’organicità di una musica sempre comprensibile (oltre i linguaggi), essenziale eppure raffinata, “primaria”, fondamentale. E poi – quando si ha la fortuna di ascoltare le loro stesse riflessioni, come quelle riportate nell’intervista – il discorso sulla loro musica diviene inevitabilmente astratto, allo stesso tempo intangibile, incorporeo eppure così indispensabile: da un lato perché l’elemento musicale ci avvolge e ci solleva a un livello di permeabilità straordinario. Dall’altro perché percepiamo l’importanza delle loro parole, sia cantate che parlate, a cui accordiamo inevitabilmente ammirazione, stupore e incanto. La naturalezza della musica di “Manzamà” ci porta anche a considerare la nostra posizione: ogni considerazione “analitica” cede il passo alla passione pura dell’ascolto. E così comprendiamo anche l’importanza dell’ispirazione del narratore e del cantore, la sua irriducibile permeabilità, la sua visione ampia e accogliente. In questo quadro il discorso sulla musica diviene, allora, un discorso totale, liberato dai pesi dei riferimenti (la storia della musica, la storia delle musiche, le tradizioni musicali), svincolato dagli ostacoli ingenerati dai generi musicali: un discorso generato dalla musica stessa, di cui ci “appropriamo” finalmente non con lo spirito devozionale dell’ammiratore, ma con l’ammirazione del devoto rapito, che incorpora struttura e infrastruttura, chiudendo gli occhi senza abbagliarsi, riempiendo lo sguardo con la visione della figura che insegue. In un quadro di questo tipo anche l’immagine del “seguire” assume una dimensione differente, perché non concerne più la compresenza di due agenti, con due ruoli differenti e, praticamente, opposti. Ma si trasfigura in una dinamica circolare. Non perché chi produce abbia la stessa funzione di chi riceve, beneficia, accoglie. Ma perché il segnale che quello genera, questo lo incorpora, in una dinamica di trasmissione che trascende sia il musicista che l’ascoltatore. Da ascoltatore che ha ascoltato “Manzamà” per presentarlo ad altri ascoltatori (in una dinamica molto inclusiva che ha coinvolto buona parte della redazione) ho provato proprio questa sensazione di assorbimento, che non riesco a non ricondurre (avvertendo il rischio di banalizzare) alla categoria della familiarità. La semplicità con cui mi hanno accolto i quattordici brani in scaletta ha dato vita a un’esperienza intima, di cui ho goduto fin dal primo ascolto. Basta ascoltare e ogni parola (addirittura ogni titolo) si lascia esplorare fino in fondo, nel pieno del fremito poetico. “Manzamà”, tradotta in italiano “Non si sa mai” e posta come seconda traccia dell’album, è la sintesi più elegiaca che si può immaginare della visione (in questo caso) amorosa dei Mancuso: “Con una scaglia di cera/ voglio fare lo stampo/ ogni volta che sorridi/ così me lo conservo/ per le notti più sole/ per le ore più dure/ per quel tempo che, non si sa mai,/ può arrivare”. La veste musicale è un sussurro (“Una mollica di pane/ per i giorni a digiuno”), una vibrazione che si ispessisce con delicatezza, arricchendo voce e chitarra con percussioni, oud, contrabbasso e  violoncello. Tra i brani più profondi non si può non citare “Lassami dòrmiri”. Posto in apertura di scaletta, non concede nulla all’interpretazione: toglie il fiato e costringe a trattenerlo fino alla fine. Il tono è cupo, severo: l’andamento prevede variazioni melodiche che coincidono con diversificazioni strutturali del brano, nelle quali voci e strumenti confluiscono organicamente nella drammaticità dell’atmosfera. Nell’arrangiamento c’è la firma di Franco Battiato, che dirige gli archi come vortici di vento sotto la voce.


Daniele Cestellini

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