Il mongolo Dandarvaanchig Enkhjargal (canto, canto diplofonico e morin khuur), il bulgaro Dimitar Gougov (gadulka) e il francese Fabien Guyot (percussioni) producono compattezza nelle loro figurazioni sonore che immettono pronunce bluesy, risvolti rock-funky su un repertorio che passa dalle cavalcate nelle steppe mongole ai ritmi zoppi dei Balcani, potenziati dal creativo lavoro percussivo di Guyot e dalla combinazione ritmica e melodica ricca di armonici portata dagli archi: pensiamo a un brano come “Stravinski lost in the desert”, numero di punta del loro ultimo album “Wolf’s cry” che già nel titolo dice tutto sull’intraprendenza visionaria del trio. Alle pendici del Vesuvio, la settecentesca dimora di Villa Campolieto (1 ottobre) ha visto in scena la voce curda di Aynur Doğan (canto e tembur) con accanto il pianista catalano Xavier Torres Vicente e il percussionista turco Sjahin During. Voce dalla tessitura dolce e profonda che sa anche essere ferma e potente, capace di muoversi con agio tra i diversi registri, Aynur si propone con un assetto strumentale che attraversa classicismo, jazz e folk declinati sovente in forma di ballad raffinata: non sempre l’incastro sembra filare alla perfezione, ma il recital si accende soprattutto quando la voce si erge nuda o è accompagnata dal liuto a manico lungo tastato tembûr a celebrare la memoria del mondo tradizionale curdo con lo sguardo rivolto soprattutto all’universo femminile di questa montana
dell’Anatolia, dove la cantante è nata e cresciuta prima di intraprendere studi a Istanbul e di migrare verso l’Europa occidentale, anche lei nella scia della tragica diaspora del popolo curdo. Così Aynur rivela le pagine liriche del suo ultimo splendido album “Hedûr” , disco maturo che se pur la proietta ben oltre il folk, mette al centro la sua impressionante estensione vocale. Un concerto che ha procurato forti emozioni, nonostante le difficoltà dell’artista - come detto - costretta su una sedia a causa di un incidente. Invece, la signorile Villa Parnaso di Torre Annunziata (2 ottobre) ha ospitato il doppio set live della folksinger e violinista estone Maarja Nuut (canto, violino e loop station), la quale accosta materiale tradizionale a sue composizioni ispirate in una certa misura al folklore estone, ai suoi interessi di viaggio e di esplorazione delle musiche del mondo. Maarja lavora sul fraseggio, sovente minimale, e sul pizzicato dello strumento, sulla limpidezza di intonazione e sull’uso di microtonalità, manipolando voce e corde con i loop per generare una fascinosa tavolozza folktronica. Senza dubbio è stato uno degli eventi musicali della stagione concertistica campana, parliamo dell’esibizione, molto attesa (3 ottobre, Villa Vannucchi), del trio del compositore e oudista tunisino Anouar Brahem, con accanto i collaudati sodali Björn Meyer al
basso e Klaus Gesing al clarinetto basso. I due interagiscono a meraviglia con le trame ora intime ora luminose del liuto: è musica dalla forte connotazione narrativa, dall’impressionante quanto fluido rigore esecutivo, che fa sembrare tutto facile con quel suo tocco sapiente e plastico. I pianissimo, le accelerazioni vanno di pari passo con il controllo totale sulla timbrica dello strumento nobile del mondo arabo-islamico. Brahem attraversa le molteplici pagine indelebili della sua considerevole discografia, da “The Astounding Eyes of Rita”, che fa la parte del leone nel concerto ( “The lover of Beirut”, “Stopover at Djibouti”, “The astounding eyes of Rita”, “Galilee mon amour”, “Waking state” e “Al Birwa”), ad “Astrakan Café” (“Astrakan Café”), da “Thimar“ (“Talwin”) fino al bis di “Parfum de Gitane”, proveniente dalla prima incisione “Barzakh”. Il basso dello svedese-svizzero Meyer (chi si ricorda del folk-jazz dei Bazar Blå?) percorre registri insoliti, con arpeggi e accordi in simultanea, usa strumming chitarristico, tocca con puntuale precisione i tasti alti del basso e gioca con gli armonici, producendo un sound che è solido eppure cantabile; il clarinetto basso fa da raccordo, assecondando e avvolgendo gli affondi melodici e le digressioni impressioniste dell’’ūd o
lanciandosi in evoluzioni improvvisative, ma sempre conservando l’assetto funzionale all’espressività dell’ensemble. Nell’affiatamento del trio (che pure manca dell’apporto delle percussioni), non c’è mai invadenza ma un dosaggio elegante di note: il tutto si regge su un equilibrio mirabile di cui il pubblico è da subito consapevole e partecipe. Cosicché non può fare a meno di ricambiare tanto incanto con la richiesta di encore e di tributare all’indiscusso maestro appalusi in standing ovation. Degna conclusione il 4 ottobre, quando la cornice di Villa Vannucchi ha ospitato la serata conclusiva di Ethnos, che ha visto l’opening act breve ma emotivamente intenso di Davide Ambrogio, vincitore del contest Ethnos Gener/azioni Musica svoltosi nelle settimane precedenti. Apprezzatissimo il polistrumentista di Cataforìo ci ha fatto assaggiare brani dal suo prossimo album “Evocazioni e invocazioni”, esprimendosi con un linguaggio sonoro derivato da ricerca sui timbri, sull’esplorazione melodica e ritmica. Ambrogio ha poi lasciato il palco agli headliner della serata: il trio composto dal cubano Omar Sosa (pianoforte e tastiere), dalla compatriota naturalizzata svizzera Yilian Cañizares (voce e violino) e dal percussionista venezuelano Gustavo Ovalles. Nel concerto, mandato anche in streaming per sodisfare le numerose richieste del pubblico, hanno presentato il progetto discografico “Aguas”, album
dedicato all’acqua e ad Oshún, dea del pantheon della santería. Il trio mostra impressionante destrezza nel dare forma a una composita mescolanza in cui si intersecano progressioni imprevedibili giustapposte a passaggi minimalisti, ostinati ritmici e armonici, densi frastagliamenti, impennate di calore vocale e ritmico afrocubano e passaggi danzanti. In gran sintonia con l’istrionico compositore camagueyño, Cañizares e Ovalles tengono la scena alla grande. La violinista e cantante habanera, con studi a Caracas (orchestra de El Sistema) e di conservatorio a Losanna, è incontenibile nel suo librarsi trasversalmente, facendo convivere agevolmente nel fraseggio stilemi classici, jazz ed energia ritmica pulsante, a cui aggiunge una spiccata morbidezza vocale. Non è da meno la virtuosa macchina percussiva Ovalles. Fuor di dubbio che siano tutti animali da palcoscenico che offrono mestiere e divertimento al pubblico: si guardano, si compiacciono e regalano perfino passi di danza, eppure mai recedono dalla compiutezza del suono d’insieme. Null’altro da dire: una chiusura in straripante bellezza.
Ciro De Rosa
Foto 1-4-7 di Amedeo Benestante
Foto 2-3 di Spectra
Foto 5 di Ciro De Rosa
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