Shirley Collins – Heart’s Ease (Domino, 2020)

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L’“High Queenie of English Folk”, la cantante perduta e ritrovata - dopo trentotto anni di silenzio causato da una disfonia che non era che l’aspetto patologico di un più profondo mal d’amore - con il magnifico “Lodestar” (2016) si presenta con un nuovo album registrato quasi in contemporanea con il festeggiamento dei suoi ottantacinque anni. Di “Lodestar” e del docu-film “The Ballad of Shirley Collins” girato da Rob Curry e Tim Plester, che ripercorre la vita di Shirley Collins. Parliamo di un’immensa interprete del canto folklorico che non smarrisce il contatto intimo con i materiali che sta cantando, con coloro che hanno trasmesso i repertori. «When I sing I feel past generations standing behind me», ha detto. Da figlia della working-class Collins ha avvertito sempre la necessità di occuparsi di storie di sfruttamento e di ingiustizie, di non tralasciare mai gli informatori, i testimoni della tradizione orale. Se ai tempi di “Lodestar” Shirley aveva preferito registrare nella sua casa di Lewes, nell’East Sussex, circondata da amici musicisti per ritrovare il senso del cantare di fronte a un microfono evitando lo stress di un’asettica sala e di una performance davanti a fonici, per “Heart’s ease” ha fatto un passo in avanti, acconsentendo a registrare al Metway di Brighton, che dopotutto non è troppo lontano dal suo nativo Sussex, segno di una nuova fiducia in se stessa e nelle sue doti canore, che oggi come un tempo danno i brividi. Come ha dichiarato: «Lodestar non era poi così male, vero? Ma quando lo ascolto, a volte suona piuttosto incerto. Ho dovuto registrarlo a casa perché ero troppo nervosa per cantare davanti a qualcuno che non conoscevo. Questa volta ero molto più rilassata». Con una voce che non è più quella da soprano degli anni Settanta, ma il cui morbido timbro ha acquisito sfumature più intime, calde e velate, Shirley ha raccolto canzoni tradizionali britanniche e statunitensi (frutto anche del suo viaggio negli USA con Alan Lomax nel 1959), ma pure nuove composizioni, di cui qualcuna dal tratto sonoro perfino sorprendente. Si parte con “The Merry Golden Tree”, voce, basso, ukulele soprano e chitarre (suonati da Ian Kearey della Oyster Band, che è anche in veste di produttore), per narrare una storia marinara che data almeno al XVII secolo, ma che è stata appresa nel famoso viaggio americano. La chitarra di Pip Barnes entra in apertura del tradizionale “Rolling in the Dew”, registrato per la prima volta in una variante all’incirca sessantacinque anni fa. Nel successivo crescendo musicale fanno ingresso banjo e spoons (Dave Arthur) e violino (Pete Cooper). Segue “The Christmas Song”, dove la chitarra dodici corde sostiene il canto di Shirley che tocca punte alte. Tra i vertici dell’album è pure “Locked in ice”, scritta dal nipote Buz Collins, che era figlio di sua sorella Dolly. Con un incedere melanconico la ballata narra della vicenda di una nave fantasma abbandonata al largo delle coste dell’Alaska nel 1931 e avvistata per l’ultima volta nel 1969. Una splendida chitarra bottleneck accompagna la sublime interpretazione di “Wonderous Love”, un altro numero della sua seminale esperienza negli States. È un inno ottocentesco (“What Wondrous Love Is This”) tratto dal repertorio Sacred Harp, la cui melodia riprende una song britannica del secolo precedente molto più profana (“The Ballad Of William Kidd”). La personalità di Shirley traspare fulgida in un altro classicone, “Barbara Allen”, ballata scozzese interpretata con un mood differente da sue precedenti incisioni: qui sono all’opera il dobro a 12 corde di Kearey e un inatteso bordone di ghironda di Ossian Brown nell’epilogo del tema. Ascoltando “Canadee-i-o”, inevitabilmente la mente va alla versione di Nick Jones (in “Penguin Eggs”). La successiva “Sweet Greens And Blues” (testo del primo marito di Collins, il poeta e produttore Austin John Marshall) è proposta con classe ed eleganza su un intarsio di corde, che rammentano gli alfieri britannici del folk revival Seventies, e sui punteggi del violino. La limpida filosofia del “less is more” trionfa nelle minimali “Tell me True” e “Whitsun Dance”. Di quest’ultima, aperta da un’armonica (Dave Arthur) sostenuta dalle chitarre e dal violino che accompagnano il canto, il titolo fa riferimento a una festa primaverile britannica all’inizio della scomparsa stagione delle morris dance maggioline; il testo proviene dalla penna di Marshall su melodie tradizionali (“The False Bride/ Staines Morris”) ed apparve per la prima volta nell’album “Autumns in Eden” delle sorelle Collins nel 1969. Shirley si concede una pausa lasciando spazio ai passi di danza di Glen Redman e all’organico di chitarra lap slide (Kearey), violino, organetto (Dave Arthur) e concertina (John Watcham) che eseguono la morris “Orange in Bloom”, prima di lasciarci con la traccia non convenzionale del disco, “Crowlink”, con la quale siamo condotti in inusitati territori sonici: la voce in lontananza di Shirley canta una strofa («I was locked in ice, half a hundred years», dicono i versi che riprendono la ballata sulla nave fantasma citata poc’anzi) sull’oscuro tappeto di drone, elettronica e suoni ambientali (uccelli marini e onde che si infrangono sulla costa) procurati da Matthew Shaw. Cos’altro aggiungere se non che “Heart’s ease” è un gran disco che supera il come back in punta di piedi che è stato “Lodestar”? Dopo tutto parliamo di Shirley Collins, folks! 


Ciro De Rosa

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