Erodoto Project & Mirò String Trio – Mythos Metamorphosis (Cultural Bridge, 2020)

Abbiamo seguito il corso di Erodoto Project fin dall’inizio, registrando - con una soddisfazione da ascoltatori e non solo da analisti - quanta bellezza si possa scovare nel Mediterraneo. Non solo sul piano strettamente musicale - il cui valore, va da sé, non sfugge a nessun osservatore - ma anche su quello della ricerca, della lettura. Cioè di quell’insieme di forme di incontro che ci aprono non tanto all’altro, non tanto a un’alterità che ci immaginiamo per tradizione, supposta vocazione e (anche) per consolazione. A quelle forme di avvicinamento che ci spingono a riflettere sulle articolazioni infinite della cultura espressiva, che è presa e ripresa mille volte dentro il ciclo delle relazioni, di quegli sguardi che riescono a osservare e ad assorbire, senza incapsulare o decifrare affannosamente ogni minimo sibilo. Siamo nel Mediterraneo - questi musicisti raffinatissimi lo sottolineano e come, e a ragione, vista la sua vera vastità - e sembra di scoprire (non di riscoprire) a ogni passo un suono nuovo, un argomento nuovo, una nuova forma degli argomenti che ci hanno sedimentato una parte della coscienza, della vita, dello sguardo. Non è solo la musica - per ribadire la centralità dello sguardo - perché ciò che conta è la visione. Ciò che vale davvero è la disposizione di chi osserva ciò che lo circonda. E così il mare più narrato e solcato ci lascia ancora inventare: si lascia, senza nessuna contrazione, tradurre e raccontare, alzando gli angoli per farne uscire tesori. Erodoto Project - non certo a caso guidato da Bob Salmieri, sassofonista, autore e polistrumentista, oltre che animatore dello storico Milagro Acustico, che qui consolida il sodalizio con il pianista e autore Alessandro de Angelis, e coinvolge il Mirò String Trio - si butta su un jazz “mediterraneo” (per capirci), annusando fino in fondo le particelle di quel bacino dove si è perso Ulisse, colmo all’inverosimile di dei, sirene, ninfe, maghe, magie, tempeste e (ovviamente) confini. Ma ogni confine ha diverse variabili, perché, al di là della sua fisicità è anche un simbolo (o un insieme di simboli), è soggetto a interpretazioni legate alla storia, all’esperienza, alla sensibilità: fino a dove si vede, ci dicono i greci, possiamo andare e, fino a lì, riempiamo ogni angolo di persone, di scambi, di storie, linguaggi, architetture, messaggi e magie. Oltre ciò che si vede, si vedrà: ci si può anche accontentare di un mare così magico, ma si può anche mandare qualcuno a esplorare. Erodoto Project - guarda un pò come viene in aiuto l’onomastica - si sporge a guardare, tanto pago di ciò che vede quanto curioso di ciò che sente. Perché se la metamorfosi - di cui si occupa l’ensemble, insieme al mito, per tramite degli undici brani in scaletta - interessa le forme (visibili e non) delle cose e delle anime, evidentemente colpisce anche quei confini di cui sopra. Che, proprio attraverso lo sguardo si aprono a interpretazioni rinnovabili. Allora perché non suonarne le odi oggi attraverso un approccio multiforme: il jazz soffuso e sinuoso in sottofondo, nelle strutture, il timbro articolato con strumenti che, nel loro insieme e attraverso la loro compresenza, riflettono il nervo di quelle variabili (sassofono, pianoforte, contrabbasso, batteria, viola, violino, violoncello e vibrafono, ma anche friscalettu, ney e piano rhodes), melodie limpide, ritmi chiari e densi, suoni pieni, dolci e dinamici. Ecco che il racconto dell’ensemble assume i tratti pieni della storia, così come di ciò che si è visto e immaginato, senza filtri (al contrario di ciò che possono pensare i jazzisti) e senza formalismi che irrigidiscono le esecuzioni (come possono pensare i tradizionalisti). Ed ecco che, per concludere, il repertorio proposto in “Mythos Metamorphosis” ci avvolge con le sue molteplici “voci” narranti, ma ci appassiona anche attraverso i titoli dei brani. Perchè sembrano i capitoli di un’epopea mai finita, anzi in pieno svolgimento: “Aci e Galatea”, “Ifi e Iante”, “Sibilla Cumana”, “Dedalo”, “Leucosya”.


Daniele Cestellini

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