![]() |
Foto di Roberto Moretti |
BF-CHOICE
Eleonora Bordonaro, a distanza di pochi anni dall’uscita di Cuttuni e lamé, torna con un nuovo album dal titolo simbolico: Moviti ferma. Si tratta evidentemente di un ossimoro, ma è anche – come spiega lei stessa - un singolare scherzo della lingua e del dialetto. In realtà l’espressione siciliana si traduce “Resta ferma”... e in questa apparente contraddizione, in questo gioco della mente, si cela infine il senso profondo di questo nuovo lavoro della cantautrice siciliana, in cui ritroviamo i temi stessi della sua vita artistica: il legame con la voce, il legame con la musica popolare, il legame con la ricerca della tradizione, il legame con il mondo dei cantastorie. Un viaggio molto attento alle tematiche (e anche alle rivendicazioni) femminili, che si realizza pienamente nella potenza del canto e dei suoni. Un lavoro molto lontano dall’idea di distanziamento sociale che ora sembra (ed è malgrado tutto) un bene primario, perché si tratta davvero di un incontro di ispirazioni, collaborazioni, idee condivise. Il dramma che stiamo vivendo ha impedito il nostro incontro reale. Ma, quasi che si trattasse di una profezia, è avvenuto lo stesso... “movendoci ferme”.
Eleonora Bordonaro, a distanza di pochi anni dall’uscita di Cuttuni e lamé, torna con un nuovo album dal titolo simbolico: Moviti ferma. Si tratta evidentemente di un ossimoro, ma è anche – come spiega lei stessa - un singolare scherzo della lingua e del dialetto. In realtà l’espressione siciliana si traduce “Resta ferma”... e in questa apparente contraddizione, in questo gioco della mente, si cela infine il senso profondo di questo nuovo lavoro della cantautrice siciliana, in cui ritroviamo i temi stessi della sua vita artistica: il legame con la voce, il legame con la musica popolare, il legame con la ricerca della tradizione, il legame con il mondo dei cantastorie. Un viaggio molto attento alle tematiche (e anche alle rivendicazioni) femminili, che si realizza pienamente nella potenza del canto e dei suoni. Un lavoro molto lontano dall’idea di distanziamento sociale che ora sembra (ed è malgrado tutto) un bene primario, perché si tratta davvero di un incontro di ispirazioni, collaborazioni, idee condivise. Il dramma che stiamo vivendo ha impedito il nostro incontro reale. Ma, quasi che si trattasse di una profezia, è avvenuto lo stesso... “movendoci ferme”.
Nelle note che accompagnano il tuo nuovo album, si parla di un lavoro “gioiosamente arrabbiato”. In realtà il disco suona e canta gioiosamente energico, senza respiro, come sotto la spinta di un fortissimo vento travolgente. In nessun momento sembri davvero “arrabbiata”. Questa rabbia, se c’è, dove va cercata? In cosa consiste la “rabbia” di Eleonora Bordonaro?
![]() |
Foto di Stefania Nocca |
L’insofferenza di non tenere fede al proprio desiderio. Una sorta di ribellione contro gli ostacoli che si frappongono tra me e il mio desiderio. Ovviamente il desiderio più grande della mia vita è sempre stato ed è cantare, ma ci ho messo tempo per capirlo. Ci ho messo una laurea in giurisprudenza, un lavoro bellissimo ma totalizzante che richiede la massima presenza razionale e emotiva. Insomma, mi arrabbio, quasi sempre con me stessa, ogni volta che cedo alla pigrizia di farmi emotivamente distrarre da cose che non giocano a favore della mia felicità. E felicità per me coincide con desiderio. Inoltre, il disco è stato concepito in un periodo di lavoro intenso e quasi straniante. Un periodo in cui attorno a me e nella società vedevo solo piccoli uomini viziati e spocchiosi, arrivati a posizioni di potere più per solidarietà maschile che per reali meriti, il cui interesse non era verso il lavoro di squadra ma verso l’affermazione di sé. Uomini abituati a uccidere l’ispirazione e la fantasia. Invece avevo bisogno di divertimento e leggerezza incosciente, di lavoro a rischio, in perdita, ma solo se valutato con il metro dell’efficienza ed economicità. E così ho deciso che l’unico atto rivoluzionario era canalizzare le mie energie emotive verso le cose che mi fanno felice.
Come prima cosa, affrontando i tuoi lavori e i tuoi concerti (il verbo “affrontare” non è casuale), viene in mente la parola “Voce”. Cosa ha significato per Eleonora Bordonaro la scoperta della voce, innanzitutto, e della “sua” voce? E sempre restando in tema, la voce è lo strumento del racconto. Nella tua storia di artista ma anche di operatrice culturale, il racconto riveste un’importanza essenziale. Parliamone.
Da bambina mi veniva così naturale cantare che credevo che tutti potessero cantare. Dividevo il mondo in “quelli che conoscevano le parole delle canzoni” e quindi cantavano, e “quelli che non le conoscevano” e quindi non cantavano. Solo intorno agli 11 anni mi hanno fatto notare di avere una voce interessante. Che il canto fosse timbro, intonazione, ritmo non ci avevo pensato neanche un attimo. Per me era respiro. O naturale conseguenza di una musica sempre diversa che perennemente occupa, ora come allora, una porzione della mia testa. Quello che da adulta penso della voce, e della mia voce, l’ho scritto in “Vuci”, contenuta nel primo album Cuttuni e lamè. Dice “paremu i stissi ju e a me vuci ma si ju mi cunfunnu idda è cchiu sperta di mia”, cioè sembriamo uguali io e la mia voce ma, mentre io mi perdo, lei è scaltra.
![]() |
Foto di Stefania Nocca |
Ed è così: ho sempre pensato di essere più intelligente della mia voce, cioè che la voce fosse solo un attrezzo; invece mi sono accorta che, cantando, ogni sentimento si sublima e mi si chiarisce, perde ogni connotazione negativa e mantiene solo il nocciolo dolce dell’emozione. Cioè “nzoccu parti do cori si netta a ura ca sciuscià da ucca e sulu u bonu arresta”: ciò che parte dal cuore si purifica ogni volta viene cantato e resta solo il buono: do scantu ‘u tremuri (della paura il fremito), do duluri ‘a ducizza (del dolore la dolcezza), da rraggia ‘a valìa (della rabbia la voglia di fare), d’abbannunu ‘a fierizza (dell’abbandono la fierezza).
E dopo la Voce è il momento della lingua. E della Sicilia: terra, radici, sangue, parole e... ?
I concetti di lingua e racconto in me si sovrappongono. Quando ero più giovane cantavo rock, soul, jazz e non spiccicavo una parola durante i concerti, non riuscivo neanche a salutare il pubblico. Cantavo e basta. Da quando ho cominciato a cantare in siciliano, invece, il racconto di quello che sta intorno alla canzone è diventato parte integrante dello spettacolo. È come se la lingua avesse disegnato una trama che devo solo condividere. Canto cose che mi interessano, che mi rappresentano o mi incuriosiscono, cercando di mantenere un’impostazione teatrale e tendenzialmente empatica con il pubblico. Cerco di passare da un racconto personale, intimo, quasi psicanalitico, a curiosità che appartengono ai siciliani, tipo il Gallo Italico.
Che cosa è il Gallo Italico?
Quando ho letto per la prima volta dei versi in Gallo italico mi sono emozionata e stupita. Anche per noi siciliani è una lingua incomprensibile. Si tratta del cosiddetto Lombardo di Sicilia, una lingua composta da parlate in cui dominano caratteristiche, soprattutto fonetiche, tipiche dei dialetti dell’Italia Settentrionale. Al tempo della dominazione Normanna, tra il 1000 e il 1100, arrivarono in Sicilia coloni e soldati provenienti dal Nord Italia, soprattutto dal Piemonte (Monferrato), dalla Liguria, dalla Lombardia, dall’Emilia e dalla Provenza. A San Fratello, sui Nebrodi, in provincia di Messina, e in pochi altri paesi geograficamente isolati, la lingua si è mantenuta intatta e viene utilizzata anche adesso nelle conversazioni interpersonali, pure tra i bambini.
![]() |
Foto di Stefania Nocca |
Insomma, questa lingua racconta di popoli che hanno convissuto pacificamente, donando ognuno un pezzo della propria storia, contribuendo chi con un aggettivo, chi con un modo di dire, chi con un accento. Dunque, si è formata per contaminazione e mantenuta per isolamento. Mi sembra una storia molto affascinante. In più mi trovo a mio agio a cantare in lingue straniere e il Gallo Italico per me lo è, dunque prima di incidere i brani faccio accurati consulti e ripassi con i miei amici sanfratellani e solo se ricevo il loro placet incido.
Il titolo è un ossimoro ma anche un inganno, perché “Moviti ferma” in realtà significa “resta ferma”. Ma in effetti nessuna cosa, in nessun momento, resta davvero ferma. Simbolicamente una persona e un’artista come te che porta sul palco in modo potente contraddizione, dolcezze e spigoli, sceglie questo titolo e questa immagine in cui il fermarsi è la spinta primaria al movimento futuro. È un consiglio, una necessità, un’esperienza?
Tutto è partito da un’esperienza personale che riguarda il rapporto con il corpo. Mi sono resa conto che nei momenti più complicati della vita il corpo mi abbandona. O forse io abbandono lui. Ogni volta che nella vita ho affrontato un bivio, un dubbio o mi sono trovata di fronte ad un grande desiderio che mi faceva paura, ho sentito il mio corpo dissolversi o meglio pietrificarsi. Non esserci più. E allora il viso diventava protagonista come se esistesse solo lui e con lui la mente diabolica, la ragione. Che crede di ragionare, ma non va mai da nessuna parte, si movi ferma appunto. E allora l’ascolto della natura è l’unica strada per la felicità. Poi Moviti ferma è la perenne condizione di chi come me è andata andata via dalla Sicilia, ormai vent’anni fa - prima a Milano e poi a Roma - ma in effetti non si è allontanata di un passo da quel paesaggio emotivo.
![]() |
Foto di Stefania Nocca |
Infine, incredibilmente, il titolo si è trasformato nella sintetica descrizione degli ultimi mesi dell’umanità.
Si parla di un lavoro corale. Corale in quanto popolare e corale in quanto sono molte le collaborazioni e gli incontri di questo lavoro. E non sono solo musicali. Raccontacele.
Volevo raccontare la vitalità di Catania. Volevo in particolare omaggiare quel talento di non aspettare le condizioni migliori per agire con un gesto artistico. Nella mia vita da operatrice culturale nel corso degli anni mi sono trovata davanti ad artisti impigriti, forse viziati, a cui si era spenta quella scintilla di follia che arriva al pubblico e lo spiazza. Io avevo e ho bisogno di un po’ di follia, di fare le cose perché vengono, di cantare dai balconi quando non era ancora di moda. Dunque, mi sono ricordata di quanta energia c’era (e c’è) a Catania, in cui si suonava in ogni locale e ogni piazza era un teatro. Ho fatto teatro di strada con il gruppo Batarnù, una compagnia totalmente strampalata e naif ma di impatto potentissimo sul pubblico; è stata una scuola straordinaria. E allora abbiamo chiesto ad amici musicisti di condividere un pezzetto del loro percorso artistico, e ad artisti di arti varie, non autori nella loro vita di tutti i giorni, di voler giocare con noi. E dunque ho lavorato ai testi insieme a uno chef, Carmelo Chiaramonte, ad una femminista ex sindaca, Marinella Fiume, ad un poeta, Biagio Guerrera, a due attori, Giovanni Calcagno e Gaspare Balsamo, e al gestore del nostro locale preferito, testimone di infinite notti di chiacchiere e vino, Saro Nievski. Ho realizzato il sogno di collaborare con musicisti che amo molto, come Cesare Basile e Agostino Tilotta della noise band di culto Uzeda, il pianista jazz Fabrizio Puglisi, il suono inconfondibile e caldo dei Lautari,

Il disco è nato grazie ad un crowdfunding che prevedeva come ricompense vari oggetti scelti che incarnavano l’idea di muoversi da fermi o stare fermi muovendosi e sono stati prodotti da artisti siciliani che uniscono la ricerca alla tradizione. Come un segugio, una cronista naif, sono andata a scovarli e ho trovato personaggi originali, forse bizzarri, animati dal desiderio, mossi dallo struggimento per un’idea, una condizione, una fantasia.
Un giorno per caso a Scicli ho incontrato il signor Angelo Migliore, falegname di 88 anni che costruisce trottole.

Parlando con loro, ascoltando le loro esperienze artistiche, ho avuto l’idea di una città viva che crea nonostante il dissesto, l’abbrutimento della cultura dominante e il pessimismo che pervade la società.
Le donne: una nuova generazione di cantautrici racconta l’essere giovani donne in Italia e tu anche, nello specifico, nelle tue terre. Lo fai rivendicando, lo fai raccontando, lo fai polemizzando. Cosa significa essere donna e essere artista in questa epoca che – giocando con il tuo stesso titolo – è ferma e immobilizzata muovendosi troppo?
Le donne stanno facendo bene e con grande serietà. Si stanno muovendo con calma ma grande tenacia. Forse più le artiste delle altre. Si organizzano in gruppi, si parlano, si sostengono. Alla fine, l’unico modo per imporsi e dare coraggio alla meno forti è quello di stare insieme e condividere le perplessità e le debolezze. È un movimento educato, come siano noi, ma pervicace. In generale comunque è difficile. La liberazione di costumi ci ha confusi. O meglio si è scambiata l’emancipazione sessuale per la raggiunta parità tra i sessi. Non è così e il numero di donne nei consigli d’amministrazione delle società lo dimostra.
Nel brano “A Merca” racconti di una differenza, tra uomo e donna, molto interessante. È una storia che vale la pena approfondire.
Anni fa, un sabato pomeriggio, con un mio amico siamo andati in gita ad un poligono di tiro. Ad accoglierci c’era un vecchietto, forse un cacciatore, che ci dice: non guardate il bersaglio, lasciatelo da sfondo.

Tirando le somme, la sensazione che si ha all’ascolto è che, rispetto al tuo precedente lavoro, tu abbia sentito l’esigenza di superarti, di osare, di andare oltre le tue stesse possibilità, in modo sfrontato. Come hai costruito il suono “fortemente percussivo” di questo lavoro insieme con Puccio? A quali suggestioni avete fatto riferimento?
Credo di essermi rilassata e aver dato spazio alle mie possibilità piuttosto. Un canto libero da etichette e la musica che ci divertiva di più. Nel 1976 sulla rivista del National Geographic uscì un articolo intitolato Sicily where all the songs are sad (Sicilia, dove tutte le canzoni sono tristi). Ecco, volevamo superare questo stereotipo costruendo un nuovo repertorio popolare e colto in cui ci fosse spazio per varie emozioni.

Nel tuo futuro, se lo riesci già a immaginare, è contemplata la lingua italiana? Che rapporto hai con lei?
Mi piace molto, ma non credo risuoni in me. Forse è presto per dirlo, ma non credo che canterò mai in italiano. Detto questo, sarei felice di smentirmi, perché vorrà dire che avrò affrontato un’altra sfida.
Elisabetta Malantrucco
Eleonora Bordonaro – Moviti ferma (Finisterre, 2020)

Daniele Cestellini