Matilde Politi – Viva Santa Liberata (Felmay, 2020)

Matilde Politi coniuga ricerca e creatività, rispetto per quanto si eredita dalla tradizione orale (o si studia, scegliendo di farlo proprio) e commento su ciò che accade intorno. Lo fa indagando nelle pieghe dei repertori orali della sua Sicilia, però mai distaccata dalle urgenze dell’attualità: anche a muso duro come nella “Cantata No Muos”, dove ha ripreso le forme dell’ottava rima e del cunto siciliano per portare all’attenzione del pubblico la questione delle installazioni militari. C’è, poi, il suo lavoro di aggregazione sul territorio con la ricerca sui canti polivocali condivisa con il Coro Popolare, che ha portato lo scorso anno alla pubblicazione di “Ainavò” (2019), disco sui canti del mare. Altro percorso di studio è la raccolta a più voci di ninna nanne del Mediterraneo (“Dormi Dormi”, 2019). Politi sceglie strutture strumentali acustiche essenziali, senza fronzoli e profusioni timbriche negli arrangiamenti, ben attenta alla sostanza ma anche al senso melodico e ritmico come succede nell’album con Agenti Mistikì (2019), proiettato musicalmente verso la Grecia. Parliamo di dischi autoprodotti, testimonianza della gran caparbietà con cui persegue le sue idee progettuali. Con lessico mutuato dagli anni Settanta si direbbe folk progressivo, perché Matilde Politi, che nel suo bagaglio porta studi di antropologia e di teatro, è artista resistente e poco accomodante; interprete e autrice dal timbro caldo e carezzevole, appassionato e graffiante. Così è pure in “Viva Santa Liberata”, ultima sua opera, pubblicata da Felmay, sguardo sulla femminilità a partire dal titolo perfino provocatorio e ossimorico. A lei, adesso, lasciamo la parola. 

Perché il titolo “Viva Santa Liberata”?
Dopo la registrazione in studio e l’editing, il cui piano prevedeva la pubblicazione di un doppio CD, che poi ho modificato in corso d’opera, ho dovuto fare una selezione dei canti da includere in questo album. Ho scelto di tralasciare i brani più storici e politici, anche stilisticamente più scarni, per riunire e pubblicare quelli che avessero più a che fare con la donna. E cercavo di trovare il titolo che potesse corrispondere di più al materiale. Il filo conduttore era Genoveffa, il cui titolo tradizionale è “Storia di Santa Ginuveffa”, ma non volevo dare a Genoveffa sola il peso del titolo e ho dei problemi con l’idea di santità cattolica, proprio basilari, concettuali. Un giorno dopo una sessione di mixaggio in studio, a Monreale, mi sono persa per le campagne della periferia, guidata dai fiori, che erano bellissimi, e a un tratto mi sono trovata davanti a un cartello stradale: mi trovavo in Via Santa Liberata. Subito l’ossimoro mi ha colpito e ho deciso che era il titolo che stavo cercando. Prima ancora di andare a cercare chi era questa Liberata, nell’agiografia ufficiale e nella memoria popolare, mi sono appassionata all’effetto di cortocircuito che dà l’accostamento della santità con la libertà (soprattutto femminile, visto che per le donne la prima e più significativa privazione della libertà a cui siamo soggette da millenni, è la libertà del piacere sessuale.

Che donne canti?
Tutte! tranne quelle che sono state così infettate dal morbo del patriarcato, che nell'incarnarne il verbo diventano peggio dei peggiori maschi.

Molti materiali provengono dagli archivi?
Questo disco fa parte della serie in cui intendo documentare il canto di tradizione come “A tirannia” e “D’amuri, gilusia, spartenza e sdegnu”: qui non metto i miei brani d’autore. Piuttosto elaboro il materiale che trovo negli archivi, da cui vengo attratta o ispirata. Il lavoro sul materiale d’archivio ha sempre bisogno di una molteplicità di fonti: un continuo confronto e rimando tra materiali diversi, sia audio che cartaceo. Le fonti audio sono tutto il repertorio raccolto e documentato dall’inizio degli anni Sessanta del ‘900 a oggi; le fonti cartacee sono innumerevoli raccolte, più o meno famose...

Quanto c’è da indagare ancora nel patrimonio isolano?
Non si finirà mai di indagare, se solo c’è una passione, una domanda a cui si cerca risposta, un filo conduttore su cui approfondire la ricerca, il materiale documentario risulta infinito. Come davvero uno scrigno magico. In effetti ogni volta che riapro libri già letti e sfogliati mille volte, ma con una nuova domanda in mente, ecco che compaiono cose nuove, su cui prima non si era fermata l’attenzione, o anche le stesso cose già approfondite, svelano un nuovo aspetto che apre nuove interpretazioni e nuovi flussi sonori... perché si tratta sempre di riportare in suono qualcosa che non esiste più nel paesaggio sonoro reale da decine e decine di anni...

Come ha preso forma musicalmente il lavoro nella fase esecutiva?
Ogni brano ha una storia diversa: se nasce da un frammento di testo a cui ho associato una melodia inventata, allora è la suggestione dell’intento del testo a chiamare una melodia o un andamento ritmico; in altri casi il canto è integro, con testo e note musicali, ma mancano le indicazioni esecutive per la prassi, e allora il percorso può essere molto lungo, fatto di confronti con altro materiale sia scritto che soprattutto audio, a volte può durare anni, fino al momento che mi rendo conto che quel canto è diventato vivo, ha trovato la sua manifestazione sonora. Solo allora lo registro.

Si tratta di una sorta di concept album, però a tratti sembra smarrirsi la continuità della narrazione…
Sono molto legata alla forma del live. Il disco è sempre un surrogato, la funzione della musica e del canto si svolge attraverso l’incontro. Mi rendo conto che nei miei dischi spesso seguo un criterio di scaletta come se fosse un live, in cui c'è una struttura da seguire, inizio-svolgimento e fine. Soprattutto, in questi dischi di documentazione tradizionale, come se il tutto reggesse in piedi solo grazie al filo conduttore, forse perché i brani sono solo dei frammenti. Mi rendo conto oggi che come Spotify ti spappola la scaletta con la riproduzione casuale, esattamente al contrario io compongo la scaletta cercando di ricostituire un insieme. Ovviamente, non essendo realmente in origine un insieme coerente bensì un insieme di frammenti sparsi, venendo meno la narrazione che li unisce nel live, può smarrirsi a tratti la continuità della narrazione. 
Per esempio, se avessi scelto di pubblicare solo la “Storia di Santa Ginuveffa”, avrei potuto fare un disco di 80 minuti, utilizzando il testo per intero, e tutti i frammenti musicali diversi documentati in diversi posti della Sicilia, su cui intonavano la storia. Allora la continuità della narrazione sarebbe stata impeccabile. Io ne sarei ben contenta!! Sarebbe il mio ideale. Ma non coincide con le aspettative e con la disponibilità dello stile di distribuzione e fruizione musicale del ventunesimo secolo! Quindi, bisogna piuttosto cercare di seguire una logica che sia anche attenta a relazionarsi con i reali possibili fruitori della pubblicazione, e con la loro capacità di attenzione, e utilizzare le tecniche di montaggio del percorso dell’attenzione del pubblico, quelle che usa il regista.

La storia di Santa Ginuveffa è il fil-rouge del disco. Cosa ti ha preso di questa narrazione?
Mi sono innamorata inizialmente di un frammento audio proveniente dalla zona di Modica, di una vecchietta che, storpiando molte delle parole del testo, canta un frammento iniziale della storia. Evidentemente mi sono innamorata della melodia: le parole non si capivano, e pare anche la vecchietta non le avesse in grande considerazione. Invece, quando poi ho trovato il testo per esteso in Pitrè, che lo riporta come il più lungo canto narrativo da lui trascritto, mi sono appassionata anche alla storia, evidentemente presa in prestito, come tante altre, dalle leggende medievali cavalleresche, dalla storia ed il folklore nord europeo (Genoveffa è Genevieve, di Brabante, un territorio fiammingo, tra Belgio e Olanda). Ovviamente Genoveffa viene declinata in versione siciliana, e la storia reale, che dovrebbe risalire al 700, ai tempi di Carlo Martello, si impasticcia con la fantasia e la leggenda in maniera molto divertente. 
Diviene inevitabilmente, una fiaba esemplare, mitica. La storia di Genoveffa , figlia del duca di Brabante e sposa del conte palatino Sigfrido, che, ingiustamente accusata d'adulterio dal malvagio Golo, vede riconosciuta la sua innocenza solo alle soglie della morte, fu ripresa da molti scirttori, dalla leggenda aurea del 1300, poi lungo il 1600, tantissimo nel periodo romantico ottocentesco, ed ha anche in musica ispirato musicisti come Haydn, Schumann e Offenbach. A me sembra racchiudere molti dei principali archetipi che ritornano nella mitologia collegata al femminile.

Un altro set di brani intitolati “Lidia” riprende temi d’amore. Com’è trattato l’amore?
L’amore è l’argomento predominante dei canti e della poesia di tradizione ed esistono infinite declinazioni e prospettive, che emergono dai canti siciliani. Interessante è stato lasciar emergere la prospettiva femminile sull’amore, lasciar risuonare i canti al femminile, di dominio esclusivamente femminile, come il primo frammento che è un canto al telaio, e in secondo luogo provare a reinterpretare anche altri canti non ben definibili riguardo al genere del cantore o del poeta in origine, con la sensibilità acquisita attraverso i canti femminili. Sto parlando di un processo molto lungo, di anni di lavoro e indagine sui repertori femminili, fino a percepire una concreta adesione psicofisica al materiale di tradizione, nelle sue forme e nei suoi contenuti.

I canti di protesta risalgono a motivi risorgimentali. Che prospettiva danno del Risorgimento italiano?
Parlerò più approfonditamente di contestualizzazione storica dei canti, quando pubblicherò quegli altri canti che ho tenuto da parte: i due che sono entrati in questa pubblicazione, sono entrambi
provenienti da movimenti anti borbonici, ma non è questo livello di contenuto che a me interessa valorizzare adesso, quanto piuttosto i valori assoluti di protesta e incitazione alla rivolta di cui sono portatori, specialmente in una declinazione al femminile. Il valore della libertà, e della rivoluzione sociale, della coda che si fa testa, universalmente intesi, sono più importanti della contestualizzazione storica (che ho voluto però dare per indicare la provenienza tradizionale e non originale), e li ho inseriti come inni a dei valori assoluti, fieramente promanati per voce di donna.

Che sorprese riserva l’ascolto dei canti degli zolfari?
Immagino prima di tutto, che la sorpresa più grande possa essere, per la maggior parte della gente, ascoltare un canto di zolfara eseguito da una donna. Prima di tutto, questo cliché va abbattuto, esistono tantissimi esempi sonori nei documenti d’archivio, di canti al marranzano eseguiti da donne, e proprio dalle zone delle zolfare siciliane. In secondo luogo, l’esperimento che abbiamo fatto sui brani provenienti da Grotte (AG) di sovrapporre due canti, è una sorpresa. Ha sorpreso noi stesse, me e Simona De Gregorio, quando lo abbiamo improvvisato in live al festival del Marranzano 2018, seguendo un nostro gioco e la voglia di sperimentare. Ne è venuto fuori qualcosa che è risultato molto efficace, sia per noi che cantavamo che per tutte le persone che ascoltavano. Non deriva da un’idea, dalla mente, da un arrangiamento, quanto piuttosto da una intuizione, delle emozioni, una magia.

Nel tuo approccio c’è anche molto della tradizione del cunto. Come hai appreso questa modalità narrativa?
Un tempo le tecniche artistiche di tradizione venivano trasmesse da maestro ad allievo, così anche il cunto e in parte il cantastorie. Ma io appartengo a una generazione che non ha potuto fruire di questa trasmissione diretta, quei pochi maestri di tradizione che ancora erano in vita (forse oggi non più nessuno) avevano già abdicato dal loro importantissimo ruolo di “detentori di un sapere”, convinti dall'era della televisione che i loro saperi fossero vecchie e brutte cose da dimenticare. Ho cercato di appropriarmi delle tecniche di narrazione tradizionale attraverso un percorso di autoformazione teatrale, del performer: seguendo il mio percorso personale, ispirato al metodo di lavoro approfondito da Grotowski sul canto di tradizione, ho interrogato per anni, in prima persona, attraverso il canto, quei materiali tradizionali, fino a comprenderli, sentirmene partecipe, portatrice, medium.

Parliamo degli altri tuoi progetti che hai portato avanti negli ultimi anni. “Ainavò” è uno studio sui canti del mare per il Coro Polifonico Siciliano diretto insieme a Simona Di Gregorio…
Il canto a più voci di tradizione siciliana è una miniera inesauribile di ricchezza e fonte di gioia! Io ho avuto la fortuna di trovare nella collaborazione con Simona l’opportunità di frequentarli, di lavorarci e indagarli nei tanti anni della nostra amicizia. Un altra fortuna è stata quella di poter realizzare la mia antica utopia di un coro popolare siciliano, grazie a dei fondi ministeriali reperiti da MoMu: quest’esperienza è stata fondamentale, per poter condividere il nostro lavoro con un gruppo vasto di cantori non professionisti. 
Da questo è nata l’opportunità di creare una documentazione sonora di materiali tradizionali siciliani non esistenti in formato audio, ma solo in forma cartacea, quindi poco condivisibili al giorno d'oggi, e non alla portata di tutti come un documento audio. L’entusiasmo ci ha portato a programmare di sonorizzare tutto il materiale polivocale cartaceo reperibile! Ma la triste realtà della mancanza totale di fondi e sostegno economico a cui attingere per un lavoro di questa portata, ha interrotto il progetto nella fase iniziale: ho proposto di cominciare dai canti del mare per una mia personale affinità e rapporto col mare, oltre che per la bellezza e facile condivisione dei canti della mattanza a responsorio. Ho completato la mia ricerca sui canti del mare, ma la documentazione è arrivata solo alla fase pre-iniziale, cioè di produzione di una raccolta "demo", con alcuni canti inediti e altri già esistenti in formato audio, che doveva servire per il crowdfunding per la realizzazione del primo volume sui canti del mare, tutti gli inediti, a cui sarebbero seguiti i canti di terra... Chissà che un giorno si riesca riprendere il progetto e realizzarlo!

Poi hai inciso “Dormi, a matri”, dedicato alle Ninne nel Mediterraneo.
Questo è un altro filone di ricerca che porto avanti da sempre, ma per cui non avevo mai trovato fondi. In questo caso, mi sono imbattuta in un'opportunità: ho ricevuto un incarico, per produrre una playlist di ninne nanne, destinata ai reparti di ostetricia degli ospedali siciliani, che avessero una serie di caratteristiche, tra cui coinvolgere altre voci e proporre ninne non solo siciliane o italiane, ma anche in lingue che potessero essere familiari alle reali fruitrici dei reparti di maternità in Sicilia, multiculturali. La produzione di questo bellissimo progetto è rimasta in sospeso, per motivi dipendenti dalla regione Sicilia, ma io avevo già registrato tutto! Allora ho deciso di portare a termine la produzione a carico mio, anche per rispetto nei confronti degli altri artisti che avevo coinvolto, 
e cercare di metterla a frutto. Nella speranza che la kafkiana burocrazia prima o poi si sblocchi!

Ancora, c’è Matilde Politi e Agenti Mistikì, un lavoro molto interessante sia sul piano timbrico che su quello dei repertori, che si proietta oltre la Sicilia…
Anche questo è il frutto di un lavoro di anni con degli amici, gli Agenti Mistikì (agenti segreti!), in missione segreta di esplorazione tra repertori tradizionali a noi vicini, per diversi motivi. Personalmente, oltre alla passione per la musica greca e di tutto il Mediterraneo orientale, seguivo un’ipotesi di corroborazione del fragile repertorio siciliano tradizionale attraverso il dialogo con il repertorio orientale, soprattutto dal punto di vista ritmico. In più, abbiamo avuto l'opportunità di "testare" per anni questo repertorio in situazione reale di festa popolare, come rituale di condivisione, in Sicilia orientale, nella nostra festa del Panighiri Icariotico siciliano, in cui abbiamo osservato una comunità  appropriarsi di questo materiale spurio, dalla ritmica greca ma con le parole in siciliano,  e veder confermare un principio universale di metissage positivo, in cui i confini nazionali non hanno niente a che fare con i confini della cultura, in cui la diversità è ricchezza, e là dove la diversità riesce a creare convivenza e integrazione, si constata un grado di benessere maggiore per la comunità ed il suo ambiente bio-diverso.

Il tuo impegno sul territorio palermitano è costante. Su cosa sei impegnata?
Purtroppo ora siamo bloccati in isolamento e il lavoro sul territorio è del tutto paralizzato, da un punto di vista artistico. Negli anni ho lavorato su tanti fronti rivoluzionari, lo dico così perché in ogni caso, sia che lavori per l’integrazione dei migranti, o per il disarmo del territorio e la pace, o l’emancipazione femminile, o in generale alla rivalorizzazione del canto di tradizione finalizzato al benessere individuale e collettivo, il mio impegno si basa sulla consapevolezza che questo sistema è
sbagliato e non funziona, e che andrebbe rivoluzionato. Ma una rivoluzione reale, a partire dalla cultura di cui siamo impregnati, che è la cultura dell'era del capitalismo, che contiene troppe trappole disastrose per il benessere degli individui.

Come stai attraversando questa fase di confinamento?
È abbastanza drammatico, dal punto di vista materiale, ho perso dei buoni lavori che mi permettevano di proseguire sulla mia strada, e tutto suggerisce di mettere un punto e finirla li. Economicamente è insostenibile, e né lo Stato né la comunità di persone che “usufruiscono” del mio lavoro, sembrano preoccuparsi di come un artista come me possa sopravvivere a questa crisi, ancora, dopo quello che abbiamo già visto con la crisi del 2008. Contemporaneamente, per fortuna, ho moltissimo da esprimere: ho un intero album di brani che parlano esattamente di quello che sta succedendo, e che vorrei cantare ai quattro venti (stavo appena cominciando a metterli in produzione con un gruppo di musicisti quando ci hanno confinati tutti a casa....), e ancora canzoni nuove che sgorgano come fontanelle... Ma ci resta solo il web per condividere con gli altri, e veramente, non è abbastanza. non è efficace. Bisogna essere insieme, nello stesso spazio-tempo, e condividere le vibrazioni fisicamente. tutto il resto è un lontano surrogato, che non potrà mai bastare. Per questo sono molto molto preoccupata per la nostra salute, individuale e collettiva.

Necessario essere ottimisti e pensare a progetti futuri…
Sempre, sono sempre piena di progetti futuri! Meno male, finché c'è voglia di andare avanti, c’è vita. Per semplificare, ti dirò questi due: i canti politici e storici già registrati, li dovrò prima o poi pubblicare, e forse ne devo aggiungere un altro o due....; e il progetto a cui accennavo, si chiama “Il processo della farfalla - the butterfly trial”.


Matilde Politi – Viva Santa Liberata (Felmay, 2020)
Matilde Politi (voce, chitarra e tamburello) e la sua Compagnia Bella - un organico essenziale formato da Alessandro Puglia (violino e mandola), Sebastian Torres (chitarra), Simona Di Gregorio (voce, organetto, tamburi a cornice) e l’intervento occasionale del mandolino (Gabriele Politi) e del marranzano (Martino Passanisi) - portano in scena la “Storia di Genuveffa”, ripartita in sei episodi narrativi, facendo confluire materiali di tradizione e composizioni originali con fisionomie strumentali che, oltre ai modi della tradizionale orale siciliana, richiamano trame folk acustiche più ampie ed echi di “mediterraneità”. Intrecci essenziali di corde e percussioni con la voce della cantante palermitana sempre in primo piano, per svelare il canto di donne di una Sicilia opaca come quella della natura nascosta dove trova rifugio Genuveffa, assurta a simbolo delle donne perseguitate dalla violenza maschilista. Si succedono canti di protesta su temi risorgimentali antiborbonici (“La cuda, qualche vota si fa testa” e “Viva la libertà”), canti degli zolfari di Grotte, nell’agrigentino, e stornelli alla maniera di Nicosia, che aprono squarci sonori potenti ed emozionanti. Le tracce intitolate “Lidia”, invece, si sciolgono in lirismo, rivelando l’amore osservato da una angolazione femminile. Politi prende una melodia e un testo provenienti dalle isole dell’Egeo per intonare con voce intensa “Ciatu Me” (in origine “Tsivaeri Mou”, la cui melodia fu ripresa anche da Andrea Parodi in “Abacada”), melanconico canto di una madre per un figlio lontano in una terra straniera.
Genuina, vera e piena voce di donna, in un album passionale e liberatorio, oltre gli stereotipi della sicilianità.



Ciro De Rosa

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