Il clarinettista George Sleightholme e la violinista Alice Barron hanno deciso di compiere il passo di fondare la band sette anni fa, mentre frequentavano il gruppo di improvvisazione Moot alla Royal Academy of Music. Il violoncellista Rich Phillips (studi al Royal College of Music) e il percussionista-polistrumentista di attitudine world Will Roberts si sono aggregati subito dopo, dando vita al iyatra Quartet (www.iyatraquartet.com), il cui nome deriva dalla parola “iyatra”, che in hindi significa viaggio o pellegrinaggio. Un fecondo percorso di ricerca, in cui collimano interessi ed esperienze diversi, ben esplicitati nello squisito album di esordio, “This World Alone (2015). Ora, per il loro secondo lavoro hanno scelto l’altrettanto emblematico titolo “Break the Dawn”, registrando le tracce in un’unica sessione alla Union Chapel, nella perfetta acustica di uno dei venue dalla programmazione più vivace e intraprendente della capitale britannica, con la produzione e la regia fonica di Les Mommsen. I musicisti raccontano che l’album «celebra la trasformazione - la prima luce del giorno; emozioni di amore, gioia e profonda riflessione; i colori dall’indaco più ricco all’oro più vibrante; il movimento di persone per terra e per mare; antiche melodie re-immaginate; e i nostri strumenti smontati e ricostruiti per farne qualcosa di completamente nuovo».
Le coordinate sonore sono quelle di un quartetto da camera disinvolto nel superare assetti timbrici convenzionali, oltrepassando in perfetto equilibrio i confini tra generi. Aprono con l’affascinante “Black Seas”, ispirato dalla poesia “Sea-Fever” del poeta laureato inglese John Masefield (1878-1967): è una composizione per violino, clarinetto basso, violoncello e percussioni: punto di partenza è la canzone scozzese “Black is the colour”, l’intro di bordone trasporta nei territori del raga (ricordiamo che Barron ha studiato violino di scuola carnatica indiana), poi nello sviluppo del brano è esaltato lo spirito sregolato del quartetto. Risale alla prima metà Cinquecento “Dompe” (proviene da manoscritto per tastiera), motivo in cui la kalimba di Barron esercita il ruolo di strumento guida e il fraseggio del charango, suonato da Phillips, assolve in una certa misura al ruolo del liuto: il tema scorre delicato fino allo squarcio di piena libertà nella parte finale. Segue “Chandra”, omaggio alla cantante bengalese Chandra Chakraborty: qui gli iyatra fanno confluire modalità condivise dal canto piano medievale e dal raga yaman, mentre il gioco percussivo oscilla tra timbri e stili africani e cubani. A condurre la rilettura della celebre canzone d’amore tradizionale araba “Lama Bada” è la scordatura del violoncello, a cui si uniscono violino, tamburi a cornice e mezzo clarinetto per uno dei momenti più riusciti dell’intero disco. Sorprendente pure “One Step, Two”, in cui si ascolta l’inusitato incrocio di toy mbira, violoncello, djembe sordinato e una ciotola da riso. “Bhairav (Break The Dawn)”, invece, si basa su un raga del primo mattino, presentandosi con un inizio docile, per poi instradarsi in un continuum tra minimalismo e improvvisazione. Oltre, in “Maria” (rivisitazione di un antico canto trovato in un vecchio quaderno musicale scolastico di un zio di Sleightholme) e “Caravan” una bella varietà di percussioni fa la parte del leone. Diverso l’andamento di “Alpine Flowers”, la cui origine è una lapide commemorativa collocata nella cappella del Somerset College di Oxford in memoria di una donna morta salvando due ragazze zoppe da un edificio in fiamme: sulla tessitura strumentale di clarinetto basso e violino, violoncello e bódhran, il canto riprende, come in un mantra, le parole dell’epigrafe. Il quartetto conclude con “Fives”, traccia per violino, clarinetto basso, violoncello, charango e percussioni, dove virtuosismo dei singoli e suoni d’insieme vanno ancora una volta a braccetto.
Immaginativa ed evocativa, “Break the Dawn” è opera dotata di un allure particolare, un naturale attraversamento di epoche, di paralleli e meridiani sonori e territoriali.
Ciro De Rosa
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