Antoni O’Breskey – Samara (Nomadic Piano Project, 2020)

“Si dice che Mozart non sia morto veramente a 28 anni ma a 108; egli infatti sarebbe in realtà scappato in Irlanda e, dopo aver imparato a suonare la cornamusa e l’arpa celtica avrebbe vissuto altri 80 anni felice ballando e cantando” (Antonio Breschi)  In Italia si sono sempre (giustamente) recensiti e apprezzati i suoni irlandesi contenuti nei dischi dei Whisky Trail, molto meno del dovuto invece purtroppo quelli di Antonio Breschi che di quel gruppo fu, nel 1975, uno degli originali fondatori e con i quali ha realizzato i primi tre dischi per poi staccarsi ed intraprendere un visionario percorso solitario. Breschi si è diplomato al Conservatorio fiorentino “Luigi Cherubini” ma, nel suo pensiero una sinfonia di Beethoven o una fuga di Bach spogliate di tutta la loro impalcatura rivelerebbero in realtà l’essenza di una canzone di Violeta Parra o di un blues del Mississippi e nel suo immaginario in una sala da concerto, all’ascolto di un rondò di Mendelsson, tutta la gente al posto di stare seduta in silenzio ad ascoltare dovrebbe alzarsi e ballare. Cittadino universale, sulla tastiera di un pianoforte ha fatto un tutt’uno della musica irlandese e del blues, visitando incessantemente, nello spazio che intercorre tra i tasti neri e quelli bianchi, la poetica di tutti i luoghi che gli sono cari, dal Paese Basco a Punta Umbrìa, con una genialità espressiva davvero unica. In passato ha composto musiche per i documentari televisivi diretti da Folco Quilici, per il Riccardo III di Shakespeare di Giorgio Albertazzi, optando poi per un nomadismo attraverso gighe, reels, ragtime, che unisce il suono nero della Louisiana con quello delle colte corti medioevali e rinascimentali europee e risalendo in un immaginario percorso fino alle radici di mondi musicali apparentemente inconciliabili, sempre rigorosamente senza un’ombra di kitsch. Nelle sue armonie cristalline, i fruscii di risacca di una scogliera modellata dalle onde sono riusciti a sposare i ritmi scarni delle danze irlandesi con il principe degli strumenti classici, passando attraverso stili lontani, da "O’Carolan" al flamenco. Ha inciso in Italia e all’estero, decine e decine di dischi, ad alcuni dei quali hanno partecipato Benito Lertxundi, Ronnie Drew, David Hopi Hopkins, Josè Seves, ha suonato in ogni dove dividendo il palco anche con Andy Irvine, Dolores Keane, Dollar Brand, Manu Dibango, ha mescolato Chopin con il flamenco, Beethoven con la musica dei Monti Appalachi, Mozart con quella scozzese o Bach con l’Irish Dixi. Antonio ha trasfigurato sulla tastiera la musica irlandese al punto tale da trasformare il pianoforte stesso, attribuendogli quella magia che oggi può essere essenza solamente di quegli strumenti che appartengono alle minoranze etniche come l’arpa, la cornamusa, il bodhran o le tabla. In questo viaggio continuo e senza bussola verso città che non sempre hanno un mare, niente ha fermato il flusso continuo delle onde di Antonio, tanto meno le lontananze o le luci incerte di approdi forse solo sognati. E questo perché è una memoria vivente che lega questi mondi culturali in un incantatorio delirio di note e così, una volta che è entrato in te, non ti lascerà più, come se una notte in sogno da chissà dove ti fosse apparso Manuel de Falla. Innumerevoli sono le meraviglie mostrate nel corso dei decenni dalla sua musica perché lui è stato un etrusco e un pastore, un gitano e un Robinson Crusoe. I naufragi, le grida dei gabbiani marini, le birre e il fumo nei pub, le prime luci dell’alba si sono unite alle tristezze di Buenos Aires, alle colline di Connemara come alla voce ritrovata di Consuelo Nerea che intona “Lu Rusciu de lu Mare”. L’ultimo album di Breschi si intitola “Samara” dal nome della città russa, la cui cultura risalente all’età del Rame, fu scoperta nel 1973 nel corso di scavi archeologici nella steppa. In esso troviamo qualche registrazione del passato e recenti composizioni di Antonio, come il brano che dà il titolo al disco, Estonia, Kevin’s Polka e Xi’an Reel, quest’ultima in omaggio alla più antica città cinese. Inoltre si ascoltano naturalmente numerosi brani della tradizione irlandese: "Derry So Fair", "Wee Weaver", "The Longford Weaver" e una inedita versione strumentale del 1992 di "An Clar Bog Déil", un brano dove un uomo dichiara che il suo unico desiderio non è la ricchezza e neppure la nobiltà ma è sufficiente una tavola di legno come letto per giacere con il suo amore. Seguono due versioni rimissate di "Nomadic Aura" (2009) e "Sue Morley’s Jig" (1992), una dal vivo di "Dancing Leaves "(brano del 1982, originariamente presente in Ode to Ireland) ed una nuova registrazione di "Drunken Spidern", un pezzo degli anni 80 che originariamente doveva figurare in "Orekan" ma che, per questioni di spazio, ne fu escluso, come era successo anche per "Sue Morley’s Jig". 

I musicisti coinvolti nelle varie registrazioni sono: Antoni O’ Breskey (piano, vocals, trumpet), Davide Viterbo (cello, fiddle, guitar, accordion), Mairtin O’Connor (accordion), Ciara O’Connor (fiddle), Sinead O’Connor (fiddle), Consuelo Nerea (vocals, fiddle, harmonium), Paddy Cummins (mandolin, banjo), Tony Byrne (guitar), Leonora Lyne (flute), Giorgio Vendola (double bass), Massimo Giuntini (uilleann pipes, bouzouki), Joe Mc Hugh (uilleann pipes, low whistle, tin whistle), Biancastella Croce (siku), Pino Porsia (mandolin), Johnny Mc Carthy (flute), Balen López de Munain (guitar), Sergio Candotti (electric bass), David Hopi Hopkins (bodhrán), Ricky Turco (drums), Vanni Breschi (drums), Alex Borwick (trombone). 


Flavio Poltronieri

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