Kefaya and Elaha Soroor, Jazz Cafe, Londra, Regno Unito, 12 febbraio 2020

Quello di Kefaya ed Elaha Soroor è per me un live attesissimo dopo il lancio di “Songs of Our Mothers”, album che fa centro in ogni sua parte, dal significato etnografico, all’emblematica musicalità fino al design in copertina. Il collettivo è ora in tour e fa tappa a Londra presso il Jazz Cafe di Camden Town, storica venue che si sta concentrando parecchio, recentemente, sulla world music internazionale. Una serata di intensità rara sorretta da un complesso musicale solidissimo, che supporta una voce versatile e ammaliante. Elaha Soroor nasce in Iran da rifugiati afgani e torna in patria nel 2004, dove emerge come stella nascente della voce locale grazie a un talent televisivo. Il timbro è delicato ma non esile, avvolgente ma non ovattato, abbellito da ornamenti ma senza ridondanza: una vocalità notevole e multiforme che si presta alla sperimentazione musicale abbinandosi coerentemente a stili molto diversi tra loro. Kefaya è l’ensemble che la accompagna, gruppo che da due anni collabora con Elaha. In una formazione ridotta per il tour, come mi spiega il tastierista a fine concerto, abbiamo Giuliano Modarelli alle chitarre, Al MacSween alle tastiere e synth bass, Joost Hendrickx alla batteria, Gurdain Rayatt ai tabla e Camilo Tirado all’elettronica live. La serata è tuttavia aperta dai The Scorpios, un ensemble dal cuore sudanese ma con formazione multietnica, con membri da Ghana, Giamaica, Polonia, Giappone e Regno Unito. La band propone un funk psichedelico con fortissime influenze dub e afrobeat, pezzi ballabilissimi e coinvolgenti che ricordano inevitabilmente lo stile iconico di Fela Kuti. Lo show è coinvolgente e multisensoriale: se la musica trasporta la mente e attiva il corpo, i colori dei costumi di scena, il ballo e i continui scambi di sorrisi catapultano istantaneamente in luoghi lontani dall’uggiosa e fredda Londra. Un’apertura vincente che scatena l’appetito e prepara per il piatto forte della serata. 
Saliti sul palco, i membri di Kefaya contestualizzano il progetto: “Songs of Our Mothers” è un concept album che racchiude canzoni folk afgane scritte da donne, un lavoro che consolida una collaborazione biennale con la cantante e, come specifica MacSween, l’orgoglio interculturale e femminista di Kefaya. Accolta anche Elaha, la band attacca “Jama Narenji”, traccia che va dritta al dunque, scelta per introdurre anche il disco. Sul palco la (pre)potenza dei sintetizzatori e del beat di batteria si fa ancora più incalzante, l’audience è già catturata. Segue “Gole Be Khar” in un arrangiamento meno jazzistico (nella versione studio era ospite Yazz Ahmed al flicorno) e più elettronico, che mantiene però l’anima ambient e vagamente psichedelica. La band ripropone i pezzi più duri del disco, decisione saggia vista l’entità della venue e della strumentazione. “Arose Jane Madar”, un 6/8 con fantastici sintetizzatori e un intreccio unico tra tabla e batteria, “Gole Sadbarg” che assume un volto nuovo e meno acustico, “Charsi” col suo passo ballerino e accattivante. Un intervento strumentale porta tutta l’attenzione sulla band che propone una composizione originale, coinvolgente e variegata, lo specchio perfetto che riflette l’abbondante qualità del concerto. Se il disco è un perfetto bilanciamento tra Elaha, Kefaya e gli ospiti, il live lo fanno i musicisti. Elaha è fantastica e non le si potrebbe chiedere di più, ma i musici dimostrano di essere in grado di reinventarsi costantemente. Gli arrangiamenti sono ricalibrati alla perfezione per la situazione live con la stessa attenzione che hanno avuto in studio; il portamento ritmico è esemplare nonostante la presenza di batteria e tabla, strumenti ingombranti su un palco e spesso difficili da sposare con equilibrio; la chitarra di Modarelli recita parti diversissime non solo per l’effettistica, ma anche e soprattutto grazie ad un gusto tecnico ed estetico che ricalca prima gli ornamenti tipici dell’India ricordando un sitar o un sarod, poi dell’oud medio-orientale; MacSween si fa carico con risultati eccelsi sia del basso che delle tastiere, compito mai semplice. Si aggiunge una voce che non ha bisogno di commenti a chiudere un ensemble che regala un concerto che non si può che consigliare. L’audience risponde perfettamente, un pubblico generazionalmente misto e in buona parte diasporico, che segue senza fatica i ritmi in sette della canzone folk afgana battendo le mani a tempo su incitazione di Elaha. In un locale pieno fino al limite, Kefaya ed Elaha Soroor confermano di meritarsi le lodi già tessute per “Songs of Our Mothers”. Una musica capace di superare i tutti i confini: geografici, stilistici e persino quelli estetici decisi pochi mesi fa durante la prima scrittura del lavoro. 



Edoardo Marcarini

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