Francesco Corsi – Caterina (Kiné, 2019)

Lo scorso martedì 18 febbraio è stato proiettato al cinema Post-Modernissimo di Perugia “Caterina”, il film documentario dedicato alla figura e alla musica di Caterina Bueno. La proiezione è stata introdotta dal regista Francesco Corsi e Moreno Barboni, in rappresentanza della Fonoteca Regionale Oreste Trotta, che ha collaborato all’organizzazione dell’evento. Va detto fin da subito che l’atmosfera era quella giusta, un po’ da cinema di altri tempi (introduzione, proiezione, dibattito) e un po’ da incontro di approfondimento. Perché i temi cui rimanda il film (in modo diretto o indiretto) sono molti e toccano, seppur in gradi diversi, gli ambiti dell’etnomusicologia, della storia del folk revival, della musica popolare interpretata in chiave politica (sia dai musicisti e dai ricercatori che dal pubblico di affezionati), la storia dell’incontro tra le forme reinterpretate delle espressioni musicali di tradizione orale e il pubblico più vasto (come quello che al teatro Caio Melisso di Spoleto ha assistito, nel 1964, allo spettacolo “Bella Ciao” di Roberto Leydi e Filippo Crivelli). Proprio per questo, al dibattito che ha seguito la proiezione è stato invitato Giancarlo Palombini – etnomusicologo e docente di Patrimoni sonori alla Scuola di Specializzazione DEA dell’Università di Perugia – e noi di Blogfoolk, in modo da inquadrare gli argomenti del film dentro i due filoni più importanti: quello della ricerca sui repertori di tradizione orale – e quindi, di riflesso, sulla questione degli archivi e dello studio del patrimonio conservato – e quello della riproposta. In entrambi i casi, Caterina ha facilitato l’approccio di chi, come abbiamo fatto noi, si è misurato con la sua esperienza. Lo dice lei stessa nel film, sottolineando – diretta, naturale e originale – quanto sia stato importante lavorare sul campo, a faccia a faccia con i vecchi contadini toscani cui fin da giovanissima chiedeva di cantare ciò che ricordavano (le immagini che la rappresentano nelle sue ricognizioni richiamano, adattandola al corpo minuto ed energico di Caterina, l’epica della ricerca antropologica: 
spostamenti in Cinquecento, strade sterrate, villaggi di campagna, paesaggi ameni, vecchi contadini che si sforzano di ricordare i canti, osterie, mercati, registratore a tracolla). Considerare poi quell’insieme di registrazioni (che ancora oggi sono accessibili solo in parte) nella sua personale prospettiva di riproposta, apre un capitolo nuovo, che andrebbe indagato tanto su un piano storico quanto artistico. In ogni caso, tra i due poli Caterina preferisce il primo, quello della ricerca. Non ha dubbi. E non lascia spazio a fraintendimenti, quando dice che la dimensione dello spettacolo è totalmente subordinata a quella della ricerca, in quanto la prima è finalizzata (quasi) esclusivamente a finanziare la seconda. Questo è uno dei nuclei più importanti del film, perché contiene la forza del lavoro di Caterina. Un lavoro condotto innanzitutto con passione, da cui ha preso forma un metodo, una prospettiva tutt’altro che scontata. Francesco Corsi elabora filmicamente questa prospettiva seguendo i cunicoli della strada tracciata da Caterina, suggerendo così a noi spettatori di “guardare” la dimensione personale della ricerca e dell’interpretazione musicale dei suoi risultati. Ne scaturisce una trasformazione positiva della figura del folk-singer (come sembra accadere più di frequente nel contesto americano e inglese). 
Un’evoluzione, si potrebbe anche dire, che ci spinge a considerare più criticamente la possibilità che un repertorio musicale arcaico, prodotto dentro una sfera sociale politicamente ed economicamente marginale, possa assumere un significato e un valore più concreti proprio attraverso la dimensione “personalistica” della ricerca, dello studio e della reinterpretazione. D’altronde, dal film emerge più di tutto lo “spirito” della Bueno, che si adopera senza sosta a raccogliere e diffondere punti di vista “altri”, innestandoli nella contemporaneità per aumentarne la polivocalità (quello stesso spirito che richiama non solo l’abnegazione ma anche il talento, e che rende trascinanti storie come quelle di Alan Lomax, di Bob Dylan o di Woody Guthrie). Ecco che la traiettoria individuale della Bueno fortifica, invece che sfibrare, la convinzione che si debba porre l’accento sulla “musica”, e non solo e non più sugli appellativi che la accompagnano: “popolare”, “tradizionale”, “folk”, “revival”. La stessa Giovanna Marini, intervistata nel film, lo realizza con una semplicità che stupisce innanzitutto sé stessa, rinvangando dal palco del Caio Melisso vuoto l’esperienza estrema, vissuta anche insieme a Caterina, del “Bella Ciao”: “sono quattro note”, dice, ma hanno una forza prorompente. L’idea della Caterina è altrettanto vitale: tutti gli elementi dei canti popolari agiscono nella tensione che generano. 
Non è solo il testo, cioè il contenuto verbale. La carica contestatrice dei canti che lei interpreta non viene meno se, come spesso capita, un testo non è completo. Perché ciò di cui fa parte agisce sulla sfera estetica e, allo stesso modo, sul corpo politico della società, colpendone le parti più rigide, attraverso la forma del canto, il modo in cui si esprime, la sorgente da cui scaturisce, le immagini che evoca, la musica che lo sostiene. È evidente che il film voglia rappresentare anche la parabola “della trasformazione sociale e culturale” del nostro paese, indagando, seppur implicitamente, il suo rapporto “con la propria memoria storica e con la propria cultura”. Così come è evidente che la storia artistica e personale di Caterina Bueno abbia (purtroppo) ricalcato la “fortuna” che il genere folk ha avuto in Italia nell’arco degli ultimi decenni. Non credo però che la sua voce e il suo approccio siano destinati a essere dimenticati. Al contrario, grazie a questo film (che stimolerà riflessioni sia scientifiche che artistiche), emanano riflessi nuovi. Che riescono a gestire la complessità delle dinamiche in campo e i differenti significati connessi alle musiche di ispirazione popolare. La spinta per una nuova interpretazione critica sta tutta dentro l’immagine scomposta e asimmetrica di Caterina che canta “Maremma amara”: voce sporca, forte e persuasiva, chitarra in braccio appena appoggiata su una coscia, sguardo fermo e busto in avanti, accordi percettibilmente insicuri, suono grezzo ma inflessibile. 


Daniele Cestellini

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