Mi capita spesso di ascoltare progetti fusion internazionali dove il matrimonio di stili differenti sembra combinato a forza dai genitori, privo di vera emozione e bellezza. Mi chiedo, quando capita, è forse possibile racchiudere tutto il mondo in un disco? Con grande sorpresa mi son trovato la risposta tra le mani ascoltando “Songs of Our Mothers” di Elaha Soroor e Kefaya.
Lo stile è variegato con influenze molteplici dal mondo occidentale (elettronica, jazz, djent, alt rock, indie), dalla Persia, dall’India e dai Caraibi. L’album presenta, con grande naturalezza, una collezione di brani folk afghani tramandati di madre in figlia. Anche in questo senso il disco parla un linguaggio universale: emblema delle disparità di genere, che raggiungono un picco durante la guerra civile afghana e l’occupazione talebana, e portavoce di resilienza, femminilità, sensualità e spirito di resistenza.
Elaha Soroor nasce in Iran, figlia di rifugiati afghani di etnia Hazara (popolazione che abita le montagne dell’Afghanistan centrale), e torna in Afghanistan nel 2004. Si avvicina alla musica nel 2007 ed emerge nel 2009 grazie al talent show Afghan Star, le prime canzoni sono di ribellione ed accusa. Dopo esser sopravvissuta a tentati omicidi organizzati da fondamentalisti, contrari alla canzone “Sangsar” che denuncia la lapidazione, Elaha si rifugia a Londra dove entra in contatto con Giuliano Modarelli e Al MacSween, duo di produttori e centro creativo di Kefaya. La formazione del disco è tuttavia molto più estesa vantando eccellenze tra cui Yazz Ahmed al flicorno, Manos Achalinotopolous al clarinetto, Tamar Osborn al sax baritono, Mohsen Namjoo alla voce, Sarathy Korwar ai tabla e al dolak, Gurdain Singh Rayatt ai tabla, Sam Vickary al contrabbasso, Jyotsna Srykanth al violino, Sardor Mirzakhojaev alla dambura e Camilo Tirado all’elettronica live.


Edoardo Marcarini
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