Kayhan Kalhor e Behnam Samanī, Teatro Candiani, Mestre, Venezia, 6 febbraio 2020

In persiano/farsi “kæman” significa arco e “cheh” (piccolo) funziona da diminutivo. Linguisticamente, si potrebbe essere tentati di considerare la viella “kamancheh” un “piccolo arco”, un nipotino del rebab e della lira bizantina, ma saremmo fuori strada. Ascoltarla fra le mani e sospinta dal cuore di Kayhan Kalhor significa connettersi con uno strumento immenso, capace di evocare un sorprendente arco di voci, di tracciare ponti fra repertori diversi, di scavare e cavare profondità timbriche inaspettate. Se poi a sospingere e dialogare quest’arte sono la sensibilità, le mani e il tombak (tamburo a calice) di Behnam Samanī, le premesse per un concerto emozionante e indimenticabile ci sono tutte. E così è stato al teatro Candiani di Mestre (nell’ambito della rassegna Candiani Grrove) seconda tappa italiana di un tour con un paio di date in Germania alle spalle ed un’altra decina da realizzare nei prossimi giorni in Europa. Viene da domandarsi come mai questo duo sia nato solo ora, visto che si conoscono da molti anni. Forse una delle ragioni è da ricercare nel lungo periodo di residenza di Kalhor negli Stati Uniti e nelle maggiori opportunità di collaborazioni “europee” (Samanī risiede a Colonia) ora che è tornato ad abitare vicino a Teheran. Kalhor spiega che: «L’idea di suonare insieme e realizzare un tour è stata di Behnam Samanī. Saranno vent’anni che ci conosciamo, che ci incontriamo in diverse occasioni, ma non avevamo mai avuto l’opportunità di lavorare insieme. 
Ha pensato che avremmo potuto farlo attraverso un tour e si sta rivelando un’idea felice». Il palco, come l’organizzazione del concerto, è stato accuratamente preparato da Mehdi Jaghouri ricorrendo a una decina di tappeti persiani che “legano” anche visivamente le postazioni dei due musicisti che suonano uno accanto all’altro. Si è indotti a pensare che amplificare due strumenti acustici con i microfoni direzionali scelti dagli stessi musicisti sia operazione relativamente agevole e veloce. In questo caso, il primo aggettivo è pertinente, il secondo è fuori luogo. Kayhan Kalhor ha le idee molto chiare sui timbri e sulla consistenza del suono che desidera. È lui stesso a definire le tappe di quella che è una vera e propria costruzione del modo di amplificare prima kamancheh e poi tombak, prestando attenzione per tappe alla presa del suono, ai livelli del riverbero, ai tempi di “decadimento” del suono amplificato, all’equilibrio fra suono in sala e nelle spie per i musicisti, all’interazione fra i livelli di volume dei due strumenti. Non meno di un’ora di lavoro: attenta, rilassata, tesa a trarre il meglio dallo spazio e dalle risorse a disposizione. Non è una novità: anche in studio di registrazione Kalhor sa come far emergere le qualità migliori degli strumenti a disposizione, in particolare del suo kamancheh a quattro corde e come portare a maturazione la produzione del suono: per citare solo un esempio, “The Wind” venne registrato ad Istanbul a novembre del 2004 e venne pubblicato solo nel
2006 per permettere a Kalhor e Manfred Eicher adeguati tempi di missaggio nei Rainbow Studio di Oslo. Al Candiani, il concerto è stato introdotto da una breve e molto efficace presentazione degli strumenti, dei musicisti e del loro approccio all’improvvisazione curata dall’etnomusicologo Giovanni De Zorzi che ha raccontato come entrambi condividano una profonda conoscenza del repertorio tradizionale colto dell’Iran, il radif e siano oggi orientati a “trascenderlo” evitando di partire da specifiche composizioni per lasciar spazio all’improvvisazione. L’intesa fra i due musicisti si è rivelata forte e tranquilla al tempo stesso, intensa e mai nervosa. Per tre volte Kayhan Kalhor sembra scrutare il silenzio prima di far nascere e crescere frasi che costruiscono un dialogo interno alle diverse voci del suo strumento. Da mancino che suona lo strumento nella posizione abituale per un destro, ha la capacità di sollecitare ogni corda ed ogni parte del kamancheh esercitando un controllo sulle dinamiche dei suoni che permette di alternare con precisione livelli e timbriche sia vicine, sia distanti fra loro. A questo va aggiunto che l’uso dell’arco consente di produrre sia note nitide, sia una timbrica “slabbrata” che accompagna con un “soffio” la linea melodica, imprimendo profondità al paesaggio sonoro. Anche fisicamente, Kayhan Kalhor sembra a volte abbracciare ed ascoltare lo strumento ed, altre volte, distanziarsi dal kamancheh non per separarsene, ma per permettere ai movimenti intrecciati del busto, delle braccia, dei polsi, delle mani sul manico e sulle corde di fluire e disegnare volute che sembrano godere di vita propria. Behnam Samanī sa aspettare il momento giusto per inserirsi in questo percorso di ricerca e costruzione e quando le sue dieci dita danzano sulla pelle e sulla cornice del tombak è come se delle strutture che prima si intravedevano solo in filigrana prendessero corpo portando il proprio contributo di luce e colori alla tessitura sonora. 
La filigrana è fatta anche di richiami a cellule modali (gushehs) che evocano alcuni modi del radif, da Esfahān a Šur, ma senza provocare alcuna routine, in un dialogo che rimane “bedahe navazi”, una composizione in tempo reale, tesa a suscitare una connessione fra musicisti ed ascoltatori che risulti in uno stato emozionale unico, “hall”. La forte intesa fra i due musicisti si è tradotta in ampi spazi di dialogo in cui lo stesso kamancheh è stato trattato come strumento percussivo, con entrambe le mani di Kayhan Kalhor a sollecitare con diverse tecniche e posizioni tutta la paletta sonora del manico e delle quattro corde, sposando energetici passaggi pizzicati a sezioni in cui manico e corde diventano tamburo. Anche questi momenti, tecnicamente molto raffinati, non sono mai fine a sé stessi, ma permettono di articolare e rilanciare un ampio discorso musicale teso ad un momento di profonda comunione collettiva, in cui è palese la generosità e la dedizione dei musicisti che, al termine, sembrano offrire, più che note musicali, un centro affettivo condiviso, un’emozione che forse non andrebbe intaccata dall’applauso finale, lungo e riconoscente, cui non può seguire un bis.



Intervista con Kayhan Kalhor
Quando, dopo oltre vent’anni di carriera discografica, e collaborazioni che spaziano da Toumani Diabate al Kronos Quartet, il 27 ottobre scorso, il WOMEX l’ha onorato con il prestigioso Artist Award, Kayhan Kalhor ha voluto così collocare la sua opera musicale: “Il Premio costituisce un riconoscimento della ricca cultura dell’Iran, la mia terra madre e dell’arte persiana senza tempo che fiorisce ed è amata in tutto il mondo. Mentre nel mondo compaiono forze che lottano per la divisione, i confini e l’intolleranza, la musica ci unisce e ci ricorda la nostra comune umanità”. Tutti i suoi dischi offrono un mix fuori dal comune di intensità, creatività, umanità, cura per i dettagli; fra gli ultimi: la collaborazione con Aynur Doğan, Cemil Qocgiri e Salman Gambarov per le musiche curde di “Hawniyaz”, quella con il Silk Road Ensemble che sono valsi i Grammy Award di “The Music of Strangers” e “Sing me Home”, l’acclamato “It's Still Autumn” di cui ha parlato recentemente anche Blogfoolk, sia presentando il disco, sia il concerto dal vivo. L’intervista che segue è avvenuta subito prima del concerto al Teatro Candiani di Mestre.

Come è cambiato nel tempo il tuo rapporto con la musica?
Ho vissuto la musica, con la musica per cinquant’anni, da quando ne avevo cinque. Con il passare del tempo questo rapporto si è fatto sempre più profondo e mi permette di prestare attenzione a nuovi aspetti che avevo considerato meno in precedenza. 
Soprattutto, ho imparato ad usare la tecnica per esprimere musica, piuttosto che viceversa. Nell’ultimo decennio, in particolare, il suono è diventato molto importante, è al centro della mia attenzione. Qualche volta sento che tutto quello che vorrei suonare è una sola nota lunga. So che col tempo, se rimarrò in vita, continuerò a cambiare, ma sento che il modo di suonare la nota sarà fondamentale nel mio fare musica: la dimensione spirituale, innanzitutto, più che la tecnica. Ogni musicista attraversa varie fasi di crescita. Inizialmente, per me, è stato importante conoscere i maestri, copiarne l’arte, il modo in cui sapevano tessere gli ornamenti. Verso i sedici-diciassette anni ho cercato di sviluppare una mia tecnica, di suonare sul mio strumento quel che non era mai stato suonato prima. Tutto sommato, il repertorio, nel mio caso, non era vasto: c’erano i maestri contemporanei, i dischi degli anni ’30 e ’40 e il radif, il repertorio tradizionale persiano della musica colta. Potevo scegliere di restare vicino a questa musica e dedicarmi a conservare quel repertorio o di provare a suonare qualcosa di nuovo. Ho molto rispetto per il radif e la tradizione ed ho provato ad impararlo bene. Per molti anni ho studiato ed esplorato il contenuto della musica e questo mi ha avvicinato ai vecchi maestri, non solo del mio strumento, ma anche di altri strumenti iraniani. Ascoltarli profondamente mi ha fatto comprendere che quel che c’è di magico nel loro modo di suonare è il fatto che conoscono tutte le frasi musicali e conoscendole sanno scegliere il momento per crearne di nuove. Quando questo processo di innesca, credo continui per sempre. 
Nel mio caso, le mie frasi sono divenute molto più ampie, rispetto a quel che veniva suonato in precedenza. E’ come se avessi rotto e ricomposto un equilibrio, accostando frasi molto lunghe ad frasi molto brevi e questo accostamento è diventato un po’ la mia firma: la ricerca di bellezza in frasi lunghe che comprendono ornamenti. Il fatto è che la musica iraniana è stata tradizionalmente legata alla forma poetica, le frasi e i ritmi musicali sono basati sulla poesia. Ora, nonostante io abbia avuto il piacere di suonare con grandi cantanti, ho sviluppato la mia arte soprattutto come strumentista solista, cioè senza dover far dipendere quest’arte dalle forme poetiche.

Hai aspettato i trent’anni per pubblicare i primi lavori...
Penso di non aver avuto fretta di presentare presto qualcosa di mio. Ho voluto coltivare prima la mia voce, senza pensare inizialmente a registrare quel che suonavo da solo o in duo. A livello internazionale, è stato distribuito innanzitutto Ghazal, il lavoro con Sujat Khan, mentre solo dieci anni dopo l’edizione iraniana (del 1990) è circolato anche all’estero il disco “Night, Silence, Desert” realizzato con Mohammad Reza Shajarian. Tutte le mie collaborazioni sono soprattutto il frutto della curiosità. Ascolti un grande musicista e provi il desiderio di suonare insieme, 
pensi ‘non posso non suonare con lui’. E’ qualcosa che in passato non era contemplato quando si trattava di musicisti stranieri. Riguarda varie tradizioni: c’è l’idea che la tua tradizione sia la migliore e non vada mischiata ad altre. Questo valeva per le generazioni precedenti. Ma le nuove generazioni sono più aperte e questo ci offre innumerevoli opportunità. Ci permette di cercare nuovi linguaggi, nuovi suoni, creazioni che nascono da esplorazioni musicali. Per esempio, penso che in questi sedici anni di musica condivisa con Erdal Erzincan non abbiamo suonato necessariamente musica turca o persiana. E’ ora di smetterla con l idee di superiorità, di far sentire che le nuove generazioni hanno altre idee. Inoltre, con artisti come Sujat, frequentare i rispettivi circuiti musicali offre l’opportunità di ampliare il pubblico cui ci si rivolge. Dopo aver suonato con Yo-Yo Ma molti amanti della musica classica hanno prestato attenzione anche ad altre tradizioni musicali. Sono momenti in cui abbiamo la possibilità di offrire al mondo suoni nuovi.

Una tua collaborazione recente riguarda un trio tutto olandese con cui suonerai nuovamente in varie città europee fra aprile e luglio...
Nel 2013 il festival November Music ha offerto una carte blanche al trio di Rembrandt Frerichs (forte piano), con Tony Overwater al violone e Vinsent Planjer (percussioni/whisper kit): 
in quell’occasione mi hanno invitato a suonare insieme a loro ed è nato un modo di suonare in cui ritrovo tutto ciò che amo, un approccio alla musica puro, senza schemi precostituiti. Suoniamo insieme da tanti anni e continuo a sentire quel che facciamo insieme come un processo che si sviluppa in modo molto naturale.

In che modo il suonare con percussionisti europei modifica il tuo approccio alla musica?
In genere cerco di non evitare alcun suono. Certo, non amo i contesti in cui a dettare lo svolgersi della musica sono ritmi percussivi predefiniti. Sono a mio agio quando le percussioni si inseriscono in chiave di collaborazione. Quando si tratta di percussioni occidentali cerco di dedicare maggiore attenzione all’ascolto: la chiave per noi musicisti sta nell’ascoltare. Il lavoro con il trio Rembrandt è un buon esempio, partiamo dall’ascolto e Vincent Planjer è un percussionista molto sensibile, sono sempre contento di poter suonare con lui.

Come definiresti il tuo contributo alla musica iraniana?
Sono attratto dalle musiche popolari delle diverse parti dell’Iran e ho cercato di inserire queste musiche ed i loro specifici accenti nell’ambito della tradizione colta iraniana, un tentativo che in 
passato veniva visto come un crimine. Erano già stati compiuti alcuni tentativi negli anni ’40, ma non sono stati accettati proprio per via degli accenti musicali diversi. Quel che ho cercato di sviluppare è stato il far ricorso agli accenti delle musiche popolari, mostrando al contempo la capacità di ritornare al lessico del radif: saperli offrire, ma saperli anche lasciar andare. Provo piacere nel dar voce a quel tipo di accenti, nel farli ascoltare.

Hai lasciato gli Stati Uniti dopo molti anni in cui sono stati la tua residenza principale...
Oggi viviamo vicino a Teheran in un luogo in cui abbiamo la possibilità di allevare cavalli ed altri animali, cosa che a New York non era possibile, ma che già in California faceva parte del nostro quotidiano. Perché siamo tornati a vivere in Iran? Un primo motivo è che anche mia moglie è di nazionalità iraniana ed era divenuto difficile per lei vivere negli Stati Uniti. Un secondo motivo è che si è venuto a creare un clima fascista, molti atteggiamenti sono cambiati rapidamente, si diffondono i pregiudizi, tutto è centrato su logiche securitarie. Non che in Iran non ci siano problemi, anzi. Trovo molto problematici tutti i regimi che non rispettano la volontà delle persone. Credo che con la musica sia possibile provocare cambiamenti profondi, anche se non lo notiamo nell’immediato. Ma la vita, senza la sua dimensione culturale non avrebbe alcun significato. Allora vale la pena agire almeno su una delle tre dimensioni chiave per una società, la cultura, augurandoci che sappia nutrire ed influenzare le altre due, la dimensione politica e quella economica. Queste ultime due sono decisamente corrotte. Se c’è una salvezza è affidata alla cultura: se ben indirizzata, può lentamente agire e cambiare anche l’economia e la politica. Non può avvenire da un giorno all’altro, dobbiamo saper investire a lungo termine. Io do il mio contributo. In Iran ho appena suonato sessanta concerti, trentatré a Teheran, con moltissimi giovani che vengono ad ascoltare, che sanno che possiamo parlarci attraverso queste forme culturali, attraverso tutte le forme artistiche.


Alessio Surian

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