Dead Can Dance: Il morto può danzare e risorgere

Poco tempo fa mi trovavo in un villaggio ungherese ed entrai, attratto da un coro, in una grande stanza spoglia al centro della quale stava sdraiata a terra una persona completamente immobile e con un fazzoletto bianco sul viso. C’erano contadini, pastori, uomini e donne che di sicuro non avevano preso lezioni di canto, eppure il coinvolgimento appariva così intenso che emozione e sensibilità non erano certo risparmiate. Siccome in musica l’unica cosa che non si può insegnare è proprio il sentimento, è solo alla propria anima che doveva sicuramente rivolgersi quella gente per trarre ispirazione. Poi, dopo alcuni profondi respiri iniziò ad emettere i suoi suoni una terrificante cornamusa che recava alla propria sommità la testa di una capra, la melodia della prima pipa era davvero ammaliante e i due bordoni che l’accompagnavano incessantemente, avevano risonanze strazianti fuori dal tempo e dallo spazio. Da secoli è uno degli strumenti preferiti da queste parti sia nelle celebrazioni matrimoniali, dove spesso supplisce all’assenza dell’orchestra, come pure nei rituali natalizi e addirittura nei reclutamenti bellici. E’ anche uno strumento che, assieme al suo suonatore, viene da sempre considerato fonte di credenze e superstizioni. A quel punto una parte delle donne del gruppo iniziarono a mimare i versi di vari animali, componendo lo scenario di un gregge immaginario e l’altra parte contemporaneamente imitava la cornamusa, prendendosi beffe del suo suono. 
Vorrei ricordare che in Ungheria le donne non suonano mai la cornamusa. La gente tutta sollevò lentissimamente la persona che giaceva al suolo, tenendo le sue braccia e le gambe e facendogliele muovere a passo di danza e a ritmo di musica mentre, al contrario, la sua volontà gli comandava un’immobilità totale. Una visione onirica assolutamente spaventosa, la vita che si impossessava con forza di quell’essere inerme, quasi fosse un “burattino senza fili”. In seguito qualcuno raccontò di come una volta, forse per punire chi aveva rappresentato questa scena, il finto morto improvvisamente morì per davvero e lì a terra rimase. Ecco, dopo aver assistito a quella macabra danza di morte e resurrezione, fantasticai di essere capitato per caso in un immaginario teatro dell’assurdo, dove veniva inconsapevolmente raffigurata la musica dei Dead Can Dance. In Oriente c’è una leggenda che racconta che Dio, dopo avere amalgamato la creta per fare l’uomo, una volta giunto al compimento della sua creazione, esortò l’anima ad entrare in quel corpo. Ma essa rifiutò affermando che non sarebbe mai entrata in una prigione. Allora Dio diede ordine agli angeli di iniziare a cantare e nell’ascoltare quelle voci, l’anima senza più indugio entrò nel corpo. Ecco, mi piace pensare che la canzone in questione assomigliasse molto a “Cantara” e le voci a quella di Lisa Gerrard: un canto ad ognuno comprensibile e che dice tutto senza interpretare nessuna lingua del mondo. Nato dal cuore e non dall’intelletto. D’altra parte, Sant’Agostino sosteneva che “chi canta prega due volte” e John Addison che “la musica è tutto quello che abbiamo quaggiù del paradiso”. L’enigmatico canto di Lisa solleva il velo che copre tutto l’immenso silenzio dell’anima non contemplando quasi mai parole compiute. Anche quando pare di ascoltarne, in un qualche idioma a noi sconosciuto, in realtà lei non ne pronuncia. La sola vibrazione del suono prodotto dalle sue corde vocali riesce a scuoterci in profondità con l’estensioni di più ottave e il magnetismo che esercita è totale. L’ascolto sia del drammatico timbro contralto in “Sanvean” come del mezzo-soprano in “The Host of Seraphim” uniti alla visione della fissità del suo sguardo e l’apparente assenza di sforzo, lasciano attoniti. A volte non si riesce nemmeno a distinguere se si tratti della voce di un uomo o di una donna, come nella danza
dello spirito in omaggio agli indigeni australiani “Yulunga” dove è talmente profondo l’abisso da cui arriva questo canto, da oltrepassare la parola stessa. E pare davvero questa “la panacea” ripetutamente invocata in “Circumradiant Dawn”: e così anche la mitologica figura greca adibita alla guarigione attraverso le piante, sembra sottolineare che il linguaggio dell’anima non va mai dimenticato. Assoluta, da lacrime agli occhi, è la trascendenza che Lisa esprime nell’interpretazione di “Gloridean” all’interno del video “Toward The Within” dove dimostra tutto il “dono dello Spirito” nel cantare la sua sciamanica glossolalia primitiva. Eppure, nonostante l’ascolto dei Dead Can Dance fosse quanto di più appagante si poteva trovare dalla metà anni ‘80 alla metà anni ‘90, i loro dischi hanno una valenza musicale addirittura meno rilevante di tutto ciò che si cela dietro alle loro canzoni. I contesti cambiano, coinvolgendoci in una specie di archeologia sperimentale davvero affascinante, rimandando, ad esempio, alla mitologia greca a cui sono riferiti diversi episodi contenuti in “Into the Labyrinth”. All’inizio, certo, le prime impressioni conducono all’istante all’opera letteraria di Charles Baudelaire, d’altra parte è fin troppo facile leggendo il titolo “Spleen and ideal”. I due opposti incatenati fra di loro.

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