Ci troviamo nuovamente in Israele, ad assaporare musica che nasce da secoli di mescolanze culturali cristallizzatesi in Giudea con l’istituzionalizzazione di Israele. Dudu Tassa si fa portavoce della musica irachena, ripensata, trasformata e riproposta in chiave contemporanea, con produzione, beat potenti e trascinati e un forte simbolismo asservito alla storia della sua gente. “El Hajar” è il terzo album scritto estemporaneamente a sei mani da Dudu e dai Kuwaity Brothers, due dei musicisti più famosi e apprezzati nella tradizione irachena. Daoud e Saleh Al-Kuwaity, ora defunti, sono rispettivamente il nonno e il prozio di Dudu. Capostipiti della scuola di oud irachena e maestri del maqām, i popolarissimi fratelli lasciano il paese per spostarsi nella terra promessa nei primi anni ‘50. La leggenda vuole che il re in persona abbia cercato di bloccarli sulla piattaforma aerea implorandoli di restare. Dudu Tassa e i suoi predecessori sono ebrei Mizrachi, ovvero ebrei che provengono da terre a maggioranza musulmana. La terza generazione di Mizrachi sta letteralmente vivendo una rivoluzione musicale volta sia alla riscoperta delle loro “radici”, che alla critica socio-culturale di un paese che li ha accolti ma solo parzialmente. I Mizrachi, infatti, non hanno mai goduto di equità sociale, segregati alle periferie delle città con minore accesso al lavoro e ai servizi. La musica che propongono si declina spesso su temi di immigrazione e fratellanza, ma anche apatia, alienazione e denuncia sociale.
Nel caso di Tassa, i suoi lavori sono un tributo ai suoi parenti, leggende musicali del mondo arabo. Riutilizza le loro melodie ricontestualizzate, usa sample di registrazioni di loro brani e canta i loro testi in ebraico ed arabo. Le influenze della musica medio orientale sono molteplici: dal forte accento arabo nel cantato in ebraico, a fattezze più strettamente musicali come l’utilizzo del maqam, ornamenti e melodie strumentali che rispondono alle linee vocali.
Il disco si apre con “Al Hilwa w’Al Murra”, brano cardine a cui è anche dedicato un video musicale. Il titolo (“In tempi migliori, in tempi amari”) ha un significato ambivalente chiarificato in parte dal video. Desolazione e aridità nella terra trovata e il lamento della terra abbandonata, pianti che si riflettono nelle condizioni delle persone che le abitano. Un mantra che si trascina lento come la musica, poggiata su un beat pigro a cui fa eco l’eterofonia alienante del coro. Troviamo una simile presenza corale in “Bint El Moshab”, pezzo decisamente più arabo negli ornamenti e nella scelta strumentale a fine strofa, anch’esso accompagnato da un video molto evocativo. Il disco si muove tra generi differenti: a volte più melodico come nella title track “El Hajar”, talvolta incalzante e deciso con reminiscenze drum & bass come in “Tuli Ya Leylay”. Tra le tracce troviamo “Dulab Bayat” dei Kuwaity Brothers, un “dulab”, che è un breve componimento strumentale usato come introduzione. In chiusura abbiamo, invece, “Khadri El Chai”, brano in 10/8 dove voci, darbouka, oud e ney chiudono un cerchio esplorativo che dall’elettronico e moderno torna all’acustico e più tradizionale.
La rielaborazione della tradizione e la presentazione in un nuovo stile sono azzeccatissime. Il disco non è solo superbo musicalmente, è un emblema importante per una generazione di emigrati che non si sentono integrati, un lato oscuro meno esplorato e discusso delle politiche socio-culturali Israeliane. Parla di un’identità ritrovata nel passato ma declinata nel contesto presente ed attuale. Un lavoro ineccepibile e fondamentale per tutti i Mizrachi, ma anche un disco eccellente per tutti gli appassionati sia di musica medio-orientale, che di declinazioni differenti del pop-rock e dell’indie internazionale.
Edoardo Marcarini
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