Se cercate Château Rouge sulla mappa di Parigi troverete una delle stazioni metro storiche (linea 4, aperta nel 1908), nel diciottesimo arrondissement, su uno dei boulevard, Barbès, che ha già dato il nome a una delle orchestre più afro e più fertili sul suolo europeo. E troverete place du Château-Rouge, da cui prende il nome un intero quartiere, a cavallo fra i municipi Goutte d'Or e Clignancourt: è uno dei posti in cui ti consigliano di andare se cerchi mercati multikulti come quelli di rue Poulet e di rue Dejean o di non frequentare se preferisci tenerti alla larga da traffico di droga e prostituzione. Ed è uno dei luoghi in cui gli abitanti stanno facendo i conti con l’amministrazione di Parigi che prova a demolire una parte degli edifici, giudicati non più idonei, e a introdurre condomini ad affitti agevolati per le famiglie meno abbienti. Se dal continente africano emigri verso l’Europa, sai che qui trovi un’ampia comunità di riferimento. Non è un caso, allora, che proprio a questo quartiere i Bantou Mentale dedichino la traccia centrale fra le dodici che compongono il loro primo CD omonimo.
Andiamo per ordine. Cinque anni fa il produttore e polistrumentista irlandese-parigino Liam Farrell, presentandosi come “Doctor L” prese alla sprovvista i circuiti world music con i Mbongwana Star, gruppo dotato di un’energia inedita per il mercato discografico, grazie anche alla forte spinta propulsiva del batterista Cubain Kubeya, un musicista che ha al suo attivo altri capitoli importanti con band di primo piano, da Konono No. 1 a Jupiter & Okwess.
I due si conoscono da una decina d’anni e da quattro stanno provando e registrando insieme, lavorando a un progetto che lega ancora una volta Kinshasa e Parigi, ed il risultato è nuovamente contundente. A loro si sono uniti il chitarrista Chicco Katembo, compagno di avventure di Cubain Kubeya con Staff Benda Bilili, e il cantante Apocalypse Mobuka, già collaboratore di Koffi Olomidé in Quartier Latin International.
Château Rouge è la loro base, un posto «di elegantoni e di ladri, di business locali e di polizia che non rimane fuori dal gioco, tutta una fauna con un’energia incredibile», secondo Cubain Kubeya, un quartiere che al gruppo ricorda quello di Matonge a Kinshasa: «a volte è più Kinshasa di Kinshasa stessa», scherza Doctor L. Il nome del gruppo viene, invece, da una riflessione seria e dal comune interesse per i pigmei, nato circa dieci anni fa quando Farrell e Kabeya si sono incontrati per la prima volta e Kabeya stava collaborando con i registi Renaud Barrett e Florent de la Tullaye al documentario “Pygmée Blues” sui batwa del Congo. Incontrare i pigmei batwa nella foresta fece cogliere a Kabeya il rapporto fra i bantou e i pigmei, da cui i bantou dell’Africa centrale discendono,
ma che oggi si sono trasformati in oppressori dei pigmei. Farrell sintetizza la scelta del nome del gruppo così: «In ogni paese troviamo oppressori ed oppressi: gli inglesi e gli irlandesi, i bantou e i pigmei… è il nostro mea culpa di fronte al fatto che a Kinshasa debbano svolgere i lavori più umili, per gli oppressi, per chi non è scolarizzato, mentre nella foresta sono dei geni!».
Rispetto all’esperienza Mbongwana, il nuovo album è intenzionalmente più politico: denuncia la violenza di “Boko Haram”, il dramma della “Syria” descrivendolo nella cornice di un conflitto per l’accaparramento delle risorse petrolifere. A chi emigra, a chi non ha documenti in regola da voce e spazio, dedicandogli i brani che aprono e chiudono l’album, raccontando l’angoscia di incontri poco gradevoli con la polizia. Un disco che ci chiede di fare i conti con la mentalità coloniale e oppressiva che alberga in ognuno di noi non fa sconti e sceglie di trattare ogni composizione in modo spigoloso, tagliente. Ma sa anche sospendere il tempo quando serve: per esempio offrendo i tempi lenti di un blues come “Boloko”, che prega ad alta voce perché i giovani congolesi d’Europa evitino di farsi arrestare, o nell’apertura di “No Romance”, con il video che denuncia come dall’anno 2.000 siano state registrate oltre 60.000 morti di migranti. Neppure un sorriso? Sì, con “Papa Jo”, omaggio dolce e ballabile ad un amico di Kinshasa.
Alessio Surian
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