Artisti Vari – Calendario Civile (Nota, 2019)

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Plurimo e multimediale. “Calendario Civile”, il progetto ideato dal Circolo Gianni Bosio e dall’editore Donzelli, che ha già avuto la forma di libro (2017), di calendario murale e di ciclo di concerti e seminari, finalmente diventa un doppio disco per le edizioni Nota, frutto della collaborazione di musicisti, ricercatori ed operatori culturali con la curatela di Susanna Buffa, Sara Modigliani, Sandro Portelli e Laura Zanacchi. Musica e parole dalle voci più significative della canzone italiana e della musica popolare, sessantasette tracce che scandiscono una ritualità laica, un intreccio di memoria storica, date istituzionali e auto-rappresentazioni dal basso dei movimenti sociali. Un calendario in divenire, urgente di fronte alla crisi politica e culturale che impone di contrassegnare date centrali per alimentare una coscienza civile e democratica. Con lo storico orale e americanista Alessandro Portelli, presidente del Circolo Gianni Bosio, figura di studioso di livello internazionale, ne abbiamo conversato a lungo nella sua casa romana in una mattinata di dicembre. Portelli, inoltre, “ci parla dell’America”, raccontando di “We Shall Not Be Moved”, il suo magnifico viaggio fissato in un libro e un digipack di 4 CD audio, contenente quasi un centinaio di tracce, pubblicati da Squi[Libri] nella collana “I Giorni Cantati”. È una raccolta che copre un arco cronologico di mezzo secolo (1969-2018) di ricerche e incontri sul campo, documenti e testimonianze sonore nelle culture degli Stati Uniti.

Come nasce il progetto “Calendario civile”?
Ho ritrovato la bozza di una lettera che mandai a Francesco Rutelli quando era Sindaco di Roma e voleva organizzare un brain trust di idee. La lettera faceva due proposte: la musica dei migranti e il calendario civile. Mi ero dimenticato che avevo queste idee in testa da sempre... L’idea del “Calendario Civile” a me viene dalla ricerca su Terni. Infatti, il libro inizia con la citazione dell’operaio di Terni Arnaldo Lippi, personaggio meraviglioso : c’era stato un tentativo di riprendersi il tempo. 
Naturalmente, il calendario liturgico continua a organizzare le nostre vite - stiamo tutti festeggiando il Natale - e non c’è niente di male: l’idea del Calendario Civile non nasce da un’idea anti-religiosa. D’altra parte, ragionando sulle origini del movimento operaio, mi colpiva come ci fosse stato un tentativo di individuare delle scadenze proprie, molte delle quali sono state cancellate. Una delle cose divertenti della sequenza Fascismo-DC è che non si festeggia più il 20 settembre (la Breccia di Porta Pia, ndr) perché andava male sia ai fascisti sia ai cattolici, però era una ricorrenza importante diventata festa nazionale nel 1895 e fino al 1930 quando fu abolita. Per i movimenti sociali era importante il 14 luglio, costava sangue fare il 1 maggio... Anche sul piano della vita personale, si festeggiava il ciclo della vita, scandito dal battesimo sulla bandiera rossa, il matrimonio civile, il funerale laico. D’altronde, anche la Rivoluzione Francese aveva provato a rinominare i mesi, rifacendo il calendario. C’è un’idea di un conflitto di classe sul tempo e sul ciclo della vita. D’altra parte, andando ancora più indietro, la Chiesa Cattolica ha fatto esattamente la stessa cosa con il ciclo dell’anno pagano, su cui si è innestato il ciclo liturgico cristiano.

Si avverte l’urgenza di un calendario civile?
La necessità di un ciclo laico dell’anno deriva anche dalla perdita di senso della cittadinanza: occorre ricostituire un elemento di riconoscimento ma non di unità. Non di unità, perché una delle cose su cose su cui insisto è che tutte queste feste sono divise: è divisivo il 25 aprile, l’8 marzo, anche il 27 gennaio, “Giornata della Memoria”, tanto è vero che ci si è inventati il 10 febbraio per accontentare la destra che si sentiva offesa. Divisivo è stato anche il 1 maggio, o almeno lo era, fino a che non hanno provato ad ammazzarlo... . Sono divisive date rivendicate dal basso come la morte di Carlo Giuliani, il 12 dicembre che ricorda la strage di Bologna: è un parte della società, oppressa, emarginata, sfruttata che rivendica la propria presenza nella storia e non fa piacere a che gliela nega. C’era poi l’influenza di un grande napoletano, come Alfonso Maria Di Nola, che parlava delle feste proprio come il momento in cui tutto ciò che la società nega viene temporaneamente legittimato. Qui, però c’è l’idea che le cose negate non siano legittimate provvisoriamente per poi restaurare l’ordine precedente, ma vengano rivendicate conflittualmente, come dicono le compagne: «L’8 marzo tutto l’anno». Un’altra cosa che mi ha mosso è che esiste una difficoltà a trovare una ritualità, penso alla povertà cerimoniale, ad esempio, del matrimoni laici. Io stesso mi sono sposato in Comune, ho celebrato matrimoni civili in Comune: ma ti manca qualche cosa… O pensa ai matrimoni delle nuove coppie che sono alla ricerca di un rituale. 

Come hai detto poc’anzi, c’erano molte feste laiche alle origini dell’Unità Nazionale, ma poi si la pratica si è andata smarrendo. 
Per esempio, era festa il 3 novembre: la data di Mentana. In una fase dello Stato liberale laico si assiste al tentativo di costruire un ciclo alternativo dell’anno, nel movimento socialista c’era la volontà di ricostruire un proprio ciclo di vita. Con il fascismo è insorto un forte conflitto, visto che il fascismo era molto forte sul piano rituale. Occorre riconoscere, accettare la qualità di parte, perché dietro c’è un’idea di democrazia che non è un’idea di consenso ma di gestione regolata dei conflitti. Avere una memoria condivisa? Ma manco per niente! La condivisione sta nel metodo con cui ragionare sulla storia e sul passato. La democrazia va intesa come metodo di gestione dei conflitti… Sono tante le memorie che dialogano o confliggono e non ci potrà mai essere un unico racconto del passato. Non bisogna inseguire un consenso, che in democrazia non ci deve essere.

Però, non c’è il rischio di restare intrappolati nella storia?
È il rischio di qualsiasi lavoro sulla storia e sulla memoria. Occorre pensare a queste cose come a un processo aperto. Per esempio, una delle prime ramificazioni del libro è stato il ciclo di concerti e spettacoli di “Calendario Civile” in cui abbiamo fatto delle cose su date che nel libro non ci sono. È un calendario in divenire. L’idea del libro è che si sono date istituzionali, date conquistate dal basso, date ancora non riconosciute a livello di movimenti. Sono rapporti diversi con questi momenti storici e sono tutti molto più fluidi. Un tempo si scendeva in piazza per l’11 settembre cileno, ora si è sovrapposto l’11 settembre dell’attacco alle torri gemelle, ma si era già smesso di andare in piazza. Può darsi che verrà un momento in cui invece di ricordare Carlo Giuliani si penserà ad altro, a meno che la data degli eventi del 2001 non venga istituzionalizzata. Anche il 2 giugno, che è la più istituzionale di tutte le date, prima e dopo Ciampi ha cambiato intensità. La memoria non è mica un dato fisso, è il tuo rapporto con il passato: come tu cambi, cambia la memoria. 

Veniamo ai due dischi del “Calendario Civile”. Come avete operato nella scelta dei materiali che danno voce e suono al succedersi di date?
Inizialmente, si voleva fare un Cd con le canzoni che stanno nel libro. Poi, soprattutto Laura Zanacchi, ha sottolineato che abbiamo fatto un ciclo di eventi musicali e teatrali chiamato “Calendario Civile”, in cui abbiamo fatto altre cose e anche quello andava riconosciuto. Perciò abbiamo inserito i materiali degli spettacoli. L’idea è stata l’eterogeneità usando una gamma ampia di generi e forme musicali. Questo non è un disco folk, è un disco di crossover che riflette l’eterogeneità del discorso sul “Calendario”. Tra le cose che mi divertono c’è l’accostamento tra Giorgio Gaber e Matteo Salvatore sul 2 giugno, tra l’altro, voglio ricordare che gli eredi di Gaber ci hanno regalato quella registrazione inedita. C’erano date su cui avevamo problemi, per dire: il giorno della memoria delle vittime del terrorismo. La scelta era caduta su De André che era già nel libro, perché in “Disamistade” c’è la frase: «il dolore degli altri è dolore a metà». L’abbiamo rifatta (cantata da Susanna Buffa, ndr), perché ci avevano chiesto molti soldi per la registrazione originale. Ci sono tutte le voci che ci sono care: Sergio Endrigo, Fabrizio De André, Ivan Della Mea, non in voce ma con la canzone. Ci sono Caterina Bueno e Gualtiero Bertelli. Si va dalle cose pop, rap, rock duro alla registrazione sul campo. Quella canzone su Garibaldi di Francesco Albanesi è una meraviglia. Un’altra mia grande passione è sempre stata la registrazione anonima del “Primo maggio”, in cui quello si reinventa la canzone di Piero Gori, si reiventa la melodia del “Nabucco” ricantandola a modo suo ed è bellissima, registrata in piazza da Franco Coggiola. E quindi c’è Franco Coggiola… il lavoro è un summa. Tuttavia, quando abbiamo fatto il primo montaggio del disco, sentendolo, data l’eterogeneità dei brani, ci siamo accorti che non andava bene … Allora, ho portato mia moglie (Mariella Eboli, ndr) in studio da mio figlio, che si è occupato della masterizzazione, per leggere le date. 

Sorprese nella scelta dei materiali?  
Non proprio sorprese, ma cose a cui tengo molto. Beh, la canzone su “Franca Viola” (la donna che rifiutò il matrimonio riparatore nel 1965; ndr) di Buttitta e Profazio, cantata da quello straordinario cantastorie (e antropologo) che è Mauro Geraci. Anche recuperare delle cose la Canzone dell’8 marzo “Siamo in tante” (dall’LP Canzoniere Femminista del 1977, ndr), che è stata  tradotta in italiano, ed è cantata da una nostra compagna e amica, la quale negava di aver mai cantato in vita sua. Ritroviamo il vinile, ma quando mio figlio Matteo, che ha curato la masterizzazione, il disco esplode, andando in pezzi. Abbiamo miracolosamente ritrovato un’altra copia su Ebay e abbiamo messo questa persona davanti alla responsabilità: “Ecco vedi che l’hai registrata!”. C’è Gualtieri Bertelli che ha ri-registrato la canzone su Pinelli. C’è un’altra data che nel libro non c’era: “La giornata internazionale sulla violenza contro le donne”, in cui abbiamo messo la canzone di una donna che si vendica. Secondo me, una cosa non convenzionale è il brano sardo sulle Fosse Ardeatine, cantato da Clara Farina. Avevamo messo la ballata di Giovanna Marini, ma dovendo tagliare il minutaggio, abbiamo dovuto sacrificarla... E poi Giovanna già c’era in altri brani. Sul Primo Maggio, tengo molto al brano di Caterina Bueno, perché mette insieme il Primo maggio come festa dei lavoratori ne la festa stagionale, di cui scrive Cesare Bermani nel suo saggio nel libro. Il brano di Calvino e Liberovici sulla coppia operaia che ha turni diversi… A me non era venuto in mente, ma Sara Modigliani ci teneva a farlo: “perché le vite operaie contano”, che è stato anche il titolo di uno spettacolo. L’idea è che la lotta operaia serva anche a un cambiamento di relazioni personali, perché si vivono vite insopportabili sul piano dei sentimenti. 

C’è anche un brano inglese, “Ain’t We Brothers”, interpretato da Sam Gleaves. 
Non c’era un brano sul “Gay Pride”, festa che non c’era nel libro ma abbiamo aggiunto per il disco, anche seguendo delle critiche benevole al nostro “Calendario”. Avevamo questa cosa meravigliosa di Sam Gleaves, tra l’altro registrata a Roma. Riascoltando il tutto, mi sono accorto che c’era “Zigeuner Lied” di Moni Ovadia  e il “Kaddish” per il 16 ottobre e il rituale per Lampedusa al 3 ottobre. In qualche modo, è un progetto anche un po’ plurilingue.  

Parlate di Sam Gleaves, ci porta direttamente alla tua ricerca di 50 anni nella musica e nella cultura proletaria americana. Di fronte a un archivio massiccio e pieno di possibili “trails”,  come hai proceduto nella selezione di quello che si può definire il lavoro di una vita?
Ti dico come avevo lavorato per fare il libro su Harlan County: a setaccio. Grosso modo ho pensato a una struttura e per ognuna delle parti a cui avevo pensato, ho assemblato del materiale. Poi, piano piano, lo si va a setacciare, restando con l’essenziale. 
La sensazione è che un lavoro è compiuto quando butti via le cose che credevi fossero fondamentali. Questo lavoro era pronto nel 2013, poi c’è voluto del tempo per via dell’editore, così si sono aggiunte una serie di cose come la manifestazione sulle armi a New York. Intanto, il quarto Cd già c’era, ho aggiunto solo delle cose che erano restate fuori, come la canzone “Riflemen of Bennington”, che è la prima che mi ha cantato Barbara Dane, ma che non era stata inserita per via dello spazio e per i temi coperti. Forse più che a setaccio, mi viene da pensare che ho lavorato per agglomerazione, avendo alcuni punti fermi attorno ai quali individarei delle cose che vi ci connettono. Punti fermi erano tutto Barbara Dane, le memorabili registrazioni nel Kentucky dei minatori in lotta. C’era anche l’idea di fare delle connessioni trasversali, per cui non solo la canzone “We shall not be moved” c’è dappertutto, ma, per esempio, c’è “Sweet By and By” nel terzo disco, perché poi nel quarto c’è “The Preacher and the Slave”. C’è un po’ infilata a forza “Life is like a Mountain Railroad”, perché sapevo che avrei aggiunto “Miner’s Lifeguard”. Grande colpo di fortuna è stato che in una chiesa di Harlan ho sentito cantare “We shall not be moved”, che è la connessione tra canto religioso e canto di lotta. Ci sono cose che non potevo non  usare, anche cose che parlano solo a me, che racconto nel libro, per me sono stati momenti iniziatici.

Barbara Dane è una personalità notevole. Cosa hai imparato dalle sue “canzoni di tre minuti” O forse di più…, per parafrasare lo Springsteen di “No Surrender”?
So’ finito a passa’ trent’anni in Kentucky perché una sera Barbara Dane mi ha cantato “I Hate the Capitalist System”. È stata la scoperta che c’erano più cose nella storia politica negli Stati Uniti di quello che ci raccontavano, anche se anni prima avevo già sentito la canzone di Joe Hill da Cisco Houston o il disco “Which Side are you on?”, era il 1964 e non avevo ancora passioni politiche. Ne presi atto ma non mi smosse. Sapevo di Harlan (la zona mineraria ai confini tra Eat Kentucky e West Virginia, già famosa per le lotte operaie e sindacali a partire dal 1931, ndr), 
ma quando Barbara cantò “I hate…”, mi chiesi: «Qualcuno ha detto queste cose negli Stati Uniti?» Lei veniva da Harlan e capì che in quel posto ci dovevo andare. L’incontro con Barbara avviene nel 1969, io nel 1972 vado ad Harlan, mentre ero in viaggio di nozze. L’incontro con Barbara è un periodo di trasformazione personale da generico progressista anti Vietnam… La mia formazione politica è passata più attraverso le cose americane che attraverso l’Italia. Stavo diventando comunista in quel periodo lì. Immagina l’impatto che una canzone del genere su uno che sta facendo la fatica di avere una passione per l’America e di diventare comunista… È stata come una specie di piccola ghiandola pineale che mi ha messo in moto…

Nelle canzoni ci sono molte contro-storie che non rientrano nell’autorappresentazione ufficiale degli Stati Uniti…
Ho sempre preferito usare i plurali. Anche il Circolo Gianni Bosio nella denominazione fa riferimento a “la memoria, la conoscenza critica e la presenza alternativa delle culture popolari”. Contro-storia sì, ma una cosa si cui insisto è che l’altra America è un pezzo di America. Una delle mie epifanie fu quando nell’”Autobiografia di Malcom X”, lui va a La Mecca e se ne esce con un frase del genere - non so se siano le sue precise parole o gliele abbia messe in bocca Alex Haley -: «L’Islam era una bella religione che avrebbe potuto diffondersi molto di più se gli fosse stata fatta una migliore pubblicità». Un americano a La Mecca! Malcom X è clamorosamente americano come lo era Woody Guthrie. Nel guardare il famoso film, “Harlan County USA” di Barbara Kopple, documentario fatto durante un grande sciopero, mi domandavo che significa Harlan County, USA? Una parte per il tutto? È un paradosso, come nella canzone di Phil Ochs “Here’s to the State of Mississippi”, il cui ritornello è: «Mississippi trovati un altro paese a cui appartenere». Ma quale altro Paese? Ce ne un’altra di Pete Seeger sul razzismo nel Sud, che dice «Il South Carolina è veramente Stati Uniti?» E come no? 
Alla fine capisci che solo negli Stati Uniti il conflitto di classe prende questa forma, è una forma americana del conflitto. Harlan County è la storia degli Stati Uniti con il turbo: ogni cosa radicalizzata, ma c’è successo tutto… Perché mi piace Springsteen? Più di Bob Dylan - che piace molto agli europei - Springsteen è intrinsecamente americano, anche se ora anche lui ha successo in Europa. È un’opposizione in America non all’America. Come dicevamo prima, le feste civile sono divisive. Certo, occorre riconoscere le divisioni dentro l’America. Alla domanda “Che significa Harlan County, USA?” risponde che significa “Born in the USA”? “Certe cose che mi avevate detto, dove stanno? Però le rivendico!” Significa ragionare su un pezzo d’America. Ho un debole particolare per il mio terzo Cd, che è quello del Gospel. Da una parte c’è dentro la mia lettura di fondo del conflitto negli Stati Uniti, che storicamente è stata diversa dalle forme del conflitto da noi. Schematizzando, da noi si contrapponevano due paradigmi simbolici e politici: la bandiera rossa e il tricolore, Marx e il Vangelo. Negli Stati Uniti il conflitto si è incanalato sull’interpretazione di simboli condivisi: che significa la bandiera? La Bibbia? La Patria? Simboli condivisi, però contesi. Anche per la mancanza di una Chiesa istituzionale e quindi centro di potere temporale, come da noi. Le Chiese in America hanno svolto ogni genere di ruoli, hanno reso possibile la storia afro-americana con la Bibbia come storia di liberazione. Una scrittrice del Kentucky, che si chiama Bobbie Ann Mason, nel suo bellissimo romanzo “Laggiù” su un reduce del Vietnam che ha la passione per Springsteen, dice che nella copertina di “Born in the USA” Springsteen guarda la bandiera e si interroga sul significato: è una lettura insolita della copertina. Da noi questo confronto sta iniziando con la Costituzione, un testo condiviso sulla cui interpretazione si discute…

Ritorniamo sul tuo prediletto terzo disco, che abbraccia diverse forme di religiosità. 
La centralità del Cd religioso ha a che fare con la dimensione della Chiesa, della Congregation, che è l’insieme dei suoi fedeli, è una dimensione di scelta, quindi più fortemente identitaria e acquisisce il significato che gli dai te. 
E poi, grazie all’impatto afroamericano, ma anche grazie alla grande esperienza settecentesca del “Great Awakening”, il rigore calvinista - che rimane - si intreccia con il fervore evangelico e produce il rock’n’roll… Questo è alla fine! Senti questi qui, in chiesa ad Harlan: quello è rock’n’roll! Voglio dire, Jerry L. Lewis e Aretha Franklin ma anche Elvis Presley, li dobbiamo alla chiesa battista, alla chiesa pentecostale… Dico che nasce il rock’n’roll, perché se ci fai caso, nel disco c’è un punto, quando finisce il brano, che il suono è quello di un orgasmo, perché dentro questa religiosità è presente una dimensione erotica. Non ha caso in “Furore”, Jim Casy, dice all’inizio: «Dopo che avevo eccitato tutti con il sermone, mi prendevo una ragazza e me la portavo in un cespuglio»… C’è il r’n’r, c’è la forma che ha acquisito la canzone sindacale. Sono le musiche matrice di tutto questo… e poi sono bellissime!

Come “We shall not be moved”, che da spiritual afroamericano diventa inno sindacale, un altro tema ricorrente è la celebre “Amazing Grace”?
Eseguita in dodici forme diverse è un altro filo conduttore. Una canzone che c’è in tre film: “Nashville”, “La ragazza di Nashville” e “Harlan County, USA”, alla fine dello sciopero quando hanno ottenuto il contratto. È un esempio incredibile di un testo collocato su versanti diversi e forse tanto diversi non saranno, è un brano cantato da bianchi e neri, anche se preferiscono strofe diverse. Le differenze le vedi sullo sfondo delle continuità: “Amazing Grace” è contesa e condivisa, come la bandiera…

Ci sono tante figure di musicisti di lungo corso ma anche nuovi musicisti di oggi… penso a Sam Gleaves, Jane Sapp e Jesse Cahn, che poi è il figlio della Dane. Altri artisti da conoscere assolutamente?
Se c’avessi una casa discografica, promuoverei in tutti i modi possibili Becky Ruth Brae, perché le due canzoni che ho inserito, “Coal Mines” e “He Can Fly”, sono dei capolavori. Sono bellissime. Lei ha avuto la forza di non cedere a Nashville…Non so che fine abbia fatto, spero di andare presto da quelle parte e vorrei portarle due soldi… per dirle che sta nel disco, di cui abbiamo venduto un po’ di copie… È gente che fatica a sopravvivere... In questo momento ad Harlan la vita è durissima.

Gli Appalachi di oggi nell’America di Trump?
C’è il mito che è colpa degli Appalachi se Trump ha vinto. Non è così, ma rappresentano questa classe operaia bianca. Trump ha detto che vuole rilanciare le miniere, anche se non sta succedendo. Ad Harlan quest’anno c’è stato di nuovo una grande lotta operaia per via del fallimento di una compagnia mineraria. Lì, ogni tentativo di diversificare l’economia è stato schiacciato dalle compagnie minerarie per cui la dipendenza dal carbone è effetto di un capitalismo feudale. La contraddizione è che dicono: «Se la Compagnia ci chiude, speriamo che Trump la faccia riaprire». 

C’è una costante in tanti anni di ricerca di Sandro Portelli?
Uguaglianza! Che, peraltro, sta nel Cd. Solo con l’eguaglianza puoi avere la diversità, perché la diseguaglianza o ti obbliga a essere in un certo modo o ti impone un modo di essere. È avere lo stesso diritto a essere differenti. Quindi, il pluralismo del “Calendario Civile”, il pluralismo delle diverse forme musicali del Cd, delle diverse Americhe. L’idea che è possibile essere differenti solo se siamo uguali.

Artisti Vari – Calendario Civile (Nota, 2019)
Il sottotitolo recita: “Per una memoria laica, popolare e democratica degli italiani”. “Calendario Civile” è il frutto della collaborazione di musicisti, ricercatori e organizzatori di cultura è ed è curato da Susanna Buffa, Sara Modigliani, Alessandro Portelli e Laura Zanacchi. Un calendario che scandisce i giorni di una ritualità civile da ricostruire e reinventare attraverso canti e canzoni non solo di matrice folk. In altre parole, un viaggio trasversale nella cultura italiana, quella della ricerca sul campo, del canto che avvertiva la necessità di “evadere dall’evasione”, passando attraverso il folk revival e la canzone d’autore fino ad approdare ai linguaggi popular contemporanei.  Un booklet di 92 pagine presenta le date del calendario e commenta i brani, di cui sono presentati tutti i testi. Nel primo Cd, dalle raccolte d’archivio provengono delle autentiche chicche quali “E l’uccellin che vo’” per la voce di Francesca Albanesi, registrata da Valentino Paparelli nel 1979, e “Vieni O maggio”, raccolta da Franco Coggiola,  ma ci sono anche brani attuali come il “Rap della Costituzione” di Assalti Frontali, cantato dal Coro multiculturale Quinta Aumentata, o il sempre magnifico Moni Ovadia, interprete di “Zigeuner Lied”. Invece, “1974” di Endrigo è affidato al sodalizio tra Susanna Buffa e Teho Teardo. Le Mondine di Porporana cantano “Bella Ciao sul Femminicidio”, mentre la  sarda Clara Farina, con una moda, forma di poesia improvvisata, sancisce la memoria dei nove sardi uccisi alle Fosse Ardeatine (la registrazione è del nostro Gianluca Dessi). Immancabili, le storiche voci romane di Sara Modigliani e Piero Brega che cantano, rispettivamente, “Oltre il Ponte” (di Calvino) e “Non ti ricordi Mamma” di Dante Bartolini. C’è l’indimenticabile Caterina Bueno (“Maggio di Roselle”), c’è Giovanna Marini in gran spolvero con il suo storico super quartetto vocale (“E Adesso?”). La coppia Buttitta - Profazio trova nuova voce in Mauro Geraci, mentre il De André di “Disamistade” è ripreso con intensità dalla Buffa. Matteo Salvatore che canta “Evviva la Repubblica” è giustapposto a una registrazione inedita de “Le Elezioni” di Gaber, mentre voce e chitarra del cantautore statunitense Sam Gleaves propongono “Ain’t We Brothers”.  “San Lorenzo” di De Gregori rifatta per voce, organetto e chitarra apre il secondo Cd; la tensione sale e il canto si fa elettrico, scuro e per niente indulgente con Assalti Frontali (“Rotta indipendente”) e Alessio Lega (“Dall’ultima Galleria”). L’accorata Lucilla Galeazzi canta “Per Sergio”, ancora Sara Modigliani interpreta il Calvino e Liberovici di “Canzone Triste”, dove si sottolinea la prospettiva esistenziale e relazionale della condizione operaia. Si passa per la poesia napoletana di Salvatore Palomba sulle Quattro Giornate e per i canti migranti di Lampedusa, c’è “Kaddish” di Shklon Katz e “Ponte de Priula” della BandaBrian, che ci porta sui luoghi del primo conflitto mondiale. Ritroviamo una storica incisione del gruppo laziale La Piazza (“Mampresa”), poi il Paolo Pietrangeli di “Uguaglianza” e perfino la sanremese “Era bello il mio ragazzo” per voce, violino e chitarra (Vanessa Cremaschi e Stefano Donegà). Gualtiero Bertelli dona una nuova versione de “Povero Pinelli”. Il commiato (per ora) è rappresentato dalla tragica perdita dell’innocenza di fronte alla violenza fascista e dello Stato in quel nefasto 12 dicembre, messa in note da Paolo Pietrangeli in “È finito il Sessantotto”. Canzoni che segnano passaggi cruciali, gloriosi o tragici, delle nostra storia democratica e della nostra tradizione repubblicana. Memoria è sorvegliare,  è, pure, la possibilità di fuggire allo smarrimento e alla crisi politica di rappresentazione di questi tempi,  è strumento di riscatto al fine di pensare il presente come quello che potrebbe essere. Cantare la proposta di un “Calendario Civile” appare necessario e urgente. Buon anno! 

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