“Sul Filo” è una selezione dai concerti registrati dal duo Paolo Angeli e Iva Bittova nel 2016: il 6 Marzo 2016 alla Handelsbeurs Concert Hall di Gent nelle Fiandre e il 21 Giugno a Praga al Palac Akropolis durante il Respect Festival più quello al Teatro da Trindade di Lisbona del 12 Dicembre dell'anno seguente. In coda è stato inserito il brano “Frammenti” registrato in Italia, sempre dal vivo, all'Isola Maggiore Lago Trasimeno Festival Music for Sunset il 26 Luglio del 2015. Il disco viene distribuito dalla prestigiosa e mitica etichetta fondata da Chris Cutler, “Recommended Records (RēR)” che presenta quello fra i due musicisti come un incontro che prima o poi “doveva accadere”. I brani contenuti sono tutti composti in duo con l'eccezione dell'Apertura che è una elaborazione tradizionale e di un brano ciascuno di propria composizione. Quello della Bittova in particolare, “Zelený víneček” è l'unica canzone del CD ad avere un testo composto di parole ed appare in precedenza anche nel suo prezioso cofanetto doppio del 1997 “Bílé Inferno” (“Inferno Bianco”): un tema popolare arrangiato per piano, percussioni e coro infantile, sovente interpretato dal vivo con improvvisazioni varie. Qui invece a coadiuvare la voce e il violino di Iva è il solo Paolo Angeli assieme al suo spettacolare strumento a 18 corde, 6 normali, 8 posizionate di traverso e 4 sospese, corredato da una serie di martelletti, pedaliere, eliche a passo variabile e pick up. Un ibrido tra una chitarra, un violoncello e una batteria costruito nella liuteria Stanzani di Bologna con la collaborazione di Francesco Concas. Uno strumento acustico e meccanico inedito, forgiato da un'idea di Angeli, questa “chitarra sarda preparata” e nato dalle esperienze di sintesi e ricerca tra avanguardia colta e tradizione popolare sarda, entrambi grandi interessi di Paolo che, non va scordato, seguendo le lezioni di Roberto Leydi, è laureato in Etnomusicologia. Va da se che l'aspetto visivo del vederlo suonare un tale strumento è esso stesso uno spettacolo nello spettacolo.
La Verde Corona di Fiori (Zelený víneček)*
La verde corona di fiori fiorisce sulla mia testa
Mi chiama un giovanotto per chiedermela
Non chiedermi, non chiedere a me
Ma chiedi alla mia mamma
Mammina, mia cara, la do a lui
Oppure la lascio fiorire ancora?
Per realizzare un disco sospeso su un filo, fragile ma pieno di colore e sapienza artigiana, come questo, una poetica senza parole, un amalgama che non è melodia ma neppure non-melodia, bisogna che tutti i suoni si fondano come in un unico strumento polifonico. L'estetica di questa musica trae linfa dalle radici delle culture d’origine dei due protagonisti: quella gitana dei villaggi della Moravia per Iva e quella sarda per Paolo che dal padre cantante e suonatore ebbe le prime lezioni e dal leggendario Giovanni Scanu apprese in seguito le forme e i moduli del canto a chitarra gallurese e logudorese. A questo va affiancata la sua ricerca sulla “tasgia”, la polivocalità liturgica e paraliturgica gallurese e l’apprendistato presso i Cantori della Settimana Santa. Il suono non tratta di filosofia ma di emozione, come il pennello e questo sia quando evoca i paesaggi zingareschi delle foreste dell'est-Europa come quando parla dei silenzi del mare Mediterraneo. Lo strumento di Paolo Angeli assomiglia a un'orchestrina, quello di Iva Bittova invece è un violino classico ma la loro colonna portante è la musica etnica dove si intersecano mescolandosi richiami primordiali, contemporanei e avanguardistici. Ricordo ancora la prima volta che vidi Iva Bittova apparire nel documentario in bianco e nero su Fred Frith “Step across the border” nel 1990, all'epoca quindi del suo solitario esordio discografico “River of Milk”. I filmati risalivano ai due anni precedenti e lei, ancora sconosciuta al pubblico, giovane e a piedi nudi seduta su una staccionata, intonava una melodia folk accattivante assieme al suo bravissimo sodale Pavel Fajt alle percussioni improvvisate lì per lì e al Maestro Fred Frith alla chitarra acustica Nel giro di breve tempo questa musicista raffinata e dall'anima zingara divenne la regina dell'avant-folk sui palchi dei teatri cantando, suonando il violino, danzando e mimando le sue esibizioni piene di vocalizzi strazianti o beffardi, strozzati o lancinanti con uno spirito fanciullesco e surreale che utilizzava mani, viso, piedi, urla che stregarono e incantarono chiunque. Capace in ogni occasione di evocare i suoi mondi poetici, mescolando la tradizione popolare romena, ceca, ungherese al rock e all’avanguardia newyorchese in un collage infernale che mescola i misteri dell'Asia ai canti gitani, la spiritualità orientale ai bivacchi dei Romsky. In meno di un attimo capace di cambiare tutte le carte sul palco con salti di registro, mugolii, stacchi rauchi, vocine da cartone animato, frammenti vocali ricavati dalla tradizione, curiosità esplorativa, teatralità, pizzicato, spirito ludico, ammiccamenti seducenti.
Sprigionando una poesia sonora controllata e disarmante con l'utilizzo di maschere cinesi o suonando completamente al buio indossando due grandi occhiali da sole con tanto di palline da ping pong luminose ai lati, giocattoli da supermercato o “waterphone”, un bizzarro strumento ad acqua di forma di gabbia conica dagli echi chilometrici usato come un vibrafono stralunato e metafisico. La sua è sempre una performance essenziale e travolgente con il vigore carnale tipico delle musiche popolari in generale, con l'imitazione della voce degli animali, memorie tenere e incubi, respiri minimali e silenzio, preghiere come acquarelli impalpabili e ninnananne infantili. Iva Bittova nata vicino a Bruntal, nella Moravia settentrionale, da un padre che suonava contrabbasso, dulcimer e tromba e da una madre cantante e ballerina forse non aveva altra scelta, la sua natura dalle radici nomadi e gitane, è dolcissima, sublime, melodiosa e aspra, con il cuore del suo suono che batte sempre su melodie malinconiche est-europee. Da giovane si è molto spostata: Opava, Brno, Lelekovice, sempre attratta dal canto, dalla danza e dalla recitazione più che dal violino, un giorno rivelò di aver iniziato a suonarlo solamente la sera per addormentare il suo bambino al lume di candela, dopo aver un po' ricamato all'uncinetto.
Flavio Poltronieri
flavio.poltronieri@libero.it
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* La parola "venecek" significa corona/ghirlanda di fiori messa sulla testa ad una ragazza ma, anticamente nella cultura slava in generale, ha pure la valenza di verginità, perdere "wianek" significa proprio perdere l’illibatezza. Esiste, per esempio in Polonia, una tradizione secondo la quale la notte di San Giovanni le ragazze facendo delle divinazioni sul proprio futuro matrimoniale, posino delle corone di fiori nella corrente di un fiume. Le corone sono fornite di candele per poter seguire il loro percorso in quanto dalla loro sorte dipende l’esito del presagio.