Di Matteo Salvatore (1925-2005), cantastorie, cantante e autore fuori dal comune, irriducibile e sregolato, emerso nella stagione del primo folk revival italiano, si sono occupati in tanti: ne hanno celebrato l’arte cantando le sue canzoni e ballate dolenti con cui ha saputo rappresentare la sofferenza, la fame nera e le sopraffazioni dei braccianti del Sud, ne hanno parlato e ne hanno sparlato, hanno scritto biografie e rievocazioni, alcune perfino dal coté noir.
In questo disco di canzoni di Matteo Salvatore, edito da Nota, prende la parola Giovanna Marini che ha conosciuto, ammirato e frequentato con assiduità il cantore di Apricena - paese posto tra il Gargano e il Tavoliere - fin dalla prima metà degli anni Sessanta del Novecento. Anzi, si può dire che incrociare Salvatore l’abbia condotta a nuove consapevolezze sulla musica del Sud. Nelle note del disco la compositrice, musicista e ricercatrice romana, una delle grandi della cultura italiana, la cui opera è stata in diversi docu-film (il più recente è “A Sud della musica - La voce libera di Giovanna Marini”) di Giandomenico Curi, facendo proprie le parole di Michele L. Straniero che ebbe a dire: «Portare Matteo da Apricena a Roma gli è stato fatale», sostiene che il cantastorie pugliese dalla vita amara e turbolenta è stato vittima del suo stesso successo all’interno del circuito dello spettacolo. Nel booklet (32 pagine con illustrazioni di Saverio Montella), Vincenzo Santoro ha il compito di tratteggiare in sintesi la figura di Salvatore e di presentare il lavoro di Marini, la quale nelle pagine successive racconta del suo “incontro con Matteo”, dei suoi insegnamenti di un repertorio lontano straordinario ed elegante che nei testi “facevano pensare ai grandi lirici greci”.
Solo oggi, a distanza di tanti anni, Marini ha preso la decisione di incidere un album dedicato interamente al canzoniere di Salvatore, superando una ritrosia dettata dal rispetto per gli originali e dalla volontà di non sciupare la forza poetica e lirica che straripava dal portamento canoro dell’inimitabile cantore. Naturalmente, Marini lo fa alla sua maniera, alternando senza soluzione di continuità episodi e aneddoti intorno alla figura del cantore del Tavoliere, come se si trattasse di uno spettacolo dal vivo e non di una registrazione in uno studio romano (registrazione, editing e mastering curati da Matteo Portelli).
Essenziale la linearità della proposta artistica: voce e chitarra di Giovanna Marini, sax e clarinetto di Francesco Marini, a raccontare di getto, in note e parole affabulatorie, le vicende di Matteo Salvatore; sono quindici canzoni contrappuntate da micro-racconti di una vita di riscatto e di tragedie e di una lunga amicizia tra i due. A ragione, Santoro lo definisce un disco «intenso e importante che restituisce, con uno sguardo delicato e un’interpretazione ricca di poesia e di pathos, la complessa e controversa figura di un grandissimo e unico artista ma che rappresenta anche un documento significativo di una fase di notevole interesse della storia culturale italiana».
Cosicché Marini mette una dopo l’altra le diverse anime musicali ed estetiche di Salvatore, tratteggiando un originale percorso che racconta la subalternità del mondo contadino, la povertà e la fame, la religiosità pugliese, ma dà conto pure dell’ironia popolaresca. C’è, dunque, un ampio ventaglio del canzoniere di Matteo, cantore della vita dura dei campi, dei vinti e dei cafoni, passaggi nella sua produzione più facile e tragi-comica e di quella d’amore, dai 78 giri ai 45 giri fino alla produzione alta a 33 giri. Li citiamo qui senza seguire per forza l’ordine della scaletta: “Mo vè la bella mia da la muntagna”, “Teresa”, “Lu Forestiero dorme la notte sull’aia”, “La Notte è bella soli soli”, “Lu Polverone”, “La bicicletta”, “Santo Michele a Monte”, “Il Giorno dei Morti”, “Lu Pecurare pé le Murge vaje”, “La siccità”, “Compare Francische” e “Il Pescivendolo”, fino agli immancabili capisaldi della sua avventura poetica quali “Il Lamento dei Mendicanti”, “Lu Bene Mio” e “Padrone Mio”. Quando si dice: un disco necessario.
Proprio come “Cantata a Riace”, in cui Marini, come nell’antica arte del cantastorie, costruisce una cantata-racconto in musica di piccoli e grandi accadimenti dell’attualità che assurgono a simboli universali di denuncia dell’ingiustizia sociale e di diritti violati. Così è per un’Italia che ha smarrito il senso di umanità, dice l’editore-etnomusicologo-operatore culturale friulano Valter Colle, che sente l’urgenza di chiosare egli stesso l’introduzione al CD (“Dei diritti e delle pene”). La vicenda di Riace e del suo sindaco Mimmo Lucano, che da modello di accoglienza diventa azione politica e sociale da condannare e da stroncare da parte dello Stato centrale, diventa una ballata di denuncia per risvegliare le coscienze, per prendere posizione da intellettuale e artista. Marini ne scrive diffusamente nell’intervento nel booklet del disco (composto da ben 42 pagine). La “Ballata” apre l’album, Giovanna si accompagna alla chitarra, mentre Francesco Marini tesse le sue trame essenziali al clarino. Lo spettacolo si sviluppa attraverso brani vecchi e nuovi. Dal suo repertorio storico proviene “Correvano i carri” (con le voci di Michele Manca e Flaviano Rossi). Sempre sul tema delle emigrazioni di ieri e di oggi canta “È partita una nave”, “Il ventaglio sul sole”, il celebre “Il Sirio”, tradizionale ma attualizzato nelle liriche e “Partono gli emigranti” di Alfredo Bandelli, del quale è ripresa anche “Quando la storia”. Sempre dal mondo della canzone d’autore degli anni Settanta è “Non chiudere Giancarlo” di Corrado Santucci, dedicata al patron dello storico Folkstudio. Marini rinnova le forme tradizionali del canto narrativo usando con attenzione la sua personale grammatica musicale, mediazione tra studi sulla vocalità popolare e le forme di canzone colta (“Passa un giorno”, “Passerà”, “Ulrike Meinhoff”), tocca pressanti drammi etici (“Welby Englaro”), ripropone due sue composizioni (“Non Credi?” e “Vado per le strade”) nelle storiche registrazioni con una delle articolazioni del formidabile quartetto vocale, qui composto da Patrizia Nasini, Maria Longo e Lucilla Galeazzi. Chiude l’album con il tradizionale “Ama Chi Ti Ama”, canto di risaia reso noto da Giovanna Daffini, qui riveduto e riscritto ampiamente con riferimenti all’Italia di oggi (chiusura delle fabbriche, caporalato, razzismo e discriminazione, il caso di Giulio Regeni), grazie ai versi suoi e di Ascanio Celestini (che interviene anche in voce) e Antonella Talamonti.
L’attenzione è sempre alta per queste storie da condividere, non semplicemente da esibire.
Ciro De Rosa
ho 78 giri di matteo salvatore
RispondiElimina