La musica è una conversazione fatta di equilibri, dove voci differenti creano interessanti strisce di pensiero lasciandosi l’un l’altra il dovuto spazio espressivo. Perché, quindi, aggiungere un virtuosissimo violino ad un già denso quintetto d’archi? Perché il Magiaro Lajkó Félix e il quintetto Polacco VOŁOSI possono farlo, e lo fanno con stile. Il sestetto sfida ogni convenzione compositiva creando un mix frenetico e incalzante, dove ogni strumento rotea energicamente sull’altro in uno scambio rapido e costante. L’effetto è impressionante, una musica esuberante e ricchissima che ricorda il virtuosismo di Paganini ma in un contesto moderno: con sfumature jazz e forti sentori di folk Europeo.
Lajkó Félix è tra i più rispettati violinisti ungheresi, uno dei pochi ad ottenere il Liszt Price. Ha una ricca discografia alle spalle come violinista e compositore di colonne sonore. VOŁOSI debutta invece nel 2012 e gira il mondo da allora costruendosi un’unica identità musicale che svicola da tutte le classificazioni canoniche.
Il disco preferisce sicuramente la velocità al lento espressivo e la densità alla semplicità, rimanendo tuttavia delicatamente comunicativo e dettagliato. L’apertura va dritta al dunque, palesando le intenzioni musicali nel primo titolo: “Speedmotion”. Un intenso tango che attacca rapidissimo nell’introduzione e nell’esposizione del tema principale, per poi addolcirsi nel mezzo dove il sestetto si fa più cheto in un mezzo-piano dilatato che poi risale progressivamente al forte svelto del tema. Meno euforico nell’attacco, ma altrettanto nella parte centrale, “Side” ha un aspetto più romantico e serio. Il brano si sviluppa, similarmente al primo, come una montagna russa che sale e scende di dinamica, fino a fermarsi sulla cadenza finale. A completare il trittico iniziale abbiamo “Crawler”, altra perla di virtuosismo violinistico e comunicativo. Solo in quarta posizione troviamo finalmente un lento, “Upside Down”, brano che possiamo abbinare per attitudine musicale a “Slowmotion”. “Valse” è invece un piccolo capolavoro a metà disco. Un’apertura distesa ed emotiva che lascia spazio ad un violino che gioca tra minore e maggiore prima di fermarsi ad accogliere l’ensemble intero che marcia su un valzer. Di nuovo, la band fatica a contenere l’esuberanza, aumentando gradualmente la corposità dell’accompagnamento che cresce nuovamente ad introdurre “Downhill”.
Lo stile del disco è unico, un sound radicato nella musica folk europea e gitana, ma con forti influenze dalla musica jazz e classica. Il mix è costantemente arricchito da un impressionante virtuosismo ed eclettismo, che tuttavia non intacca la purezza dei temi, i quali risultano sempre chiari e ben enfatizzati. Strumenti che dovrebbero lottare furiosamente per avere spazio si mescolano invece in una sinuosa miscela che esalta tutti i sapori senza coprirne nessuno. Un grande applauso va fatto, oltre che agli artisti, al mixing engineer. Un album che non può che sorprendere e lasciare col fiato sospeso, come una corsa sfrenata giù dalla collina o una notte di ballo in qualche borgo d’Europa.
Edoardo Marcarini
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