In sanscrito, Rajasthan significa “Paese dei Principi”: parlare dello stato settentrionale dell’India significa evocare proprio la terra dei grandi re, i Maharajas, e i luoghi della primigenia migrazione dei Rom. A quel mondo di rinomati poeti e musicisti girovaghi, di danzatori e incantatori di serpenti – non senza fare leva sull’inevitabile immaginario orientalista – si rifanno i Dhoad, ensemble di residenza sia francese che indiana, diretto dal suonatore di tabla Rahis Bharti.
Si tratta di una hard-working band che da molti anni calca i palchi di numerosi festival world music. I Dohad hanno suonato e cantato tanto per capi di stato di primo piano quanto per personalità del rock (si sono esibiti a un compleanno di Mick Jagger), in Italia hanno partecipato alla La Notte della Taranta nel 2019. Propensi alle collaborazioni, nel loro carnet vantano anche sodalizi live con altre culture della diaspora Rom, dalla Macedonia all’Ungheria fino all’Andalusia.
Con grande entusiasmo Bharti (al secolo Rahis Khan) si è preso la responsabilità di far conoscere e diffondere il patrimonio musicale e coreutico della sua terra, diventando egli stesso un ambasciatore culturale del Rajasthan (www.dohad.com). Originario di Jaipur, Barthi e i suoi tre fratelli, Teepu Khan (tabla), Sanjay Khan (voce, harmonium e nacchere) e Amrat Hussain (tabla) provengono da una stimatissima schiatta di musicisti e hanno vincoli di parentela anche con i suonatori che completano la band che ha inciso “Times of Mahrajas”, terzo lavoro pubblicato a otto anni di distanza da “Roots Travellers”. Ci sono Ustad Sabri Khan e Ustad Lyikat Ali Khan al violino sarangi, c’è Bilal Khan ai cori e al kartal (nacchere), un altro corista è Moinuddin Khan, mentre l tamburo bipelle dholak è suonato da Yakub Khan. Nelle performance dal vivo, inoltre, il gruppo, che è a carattere multi-confessionale (indù e musulmani) si allarga alle danzatrici e alle imprese di un fachiro. Il loro spettacolo diventa, dunque, un festoso intrattenimento, una sorta di circo musicale, dove si fondono destrezza canora, strumentale, coreutica e acrobatica.
«Nei tempi antichi, i nostri antenati suonavano per re e regine. Siamo i guardiani di quella tradizione. Le canzoni sono state tramandate dalla tradizione orale. Tutte le canzoni che abbiamo appreso corrispondono alla descrizione dei matrimoni e delle cerimonie di nascita dei Maharaja. Sono canzoni che stanno scomparendo. Questo album dona a queste canzoni un nuovo gusto ma mantiene viva la tradizione», così Rahis in una recente ’intervista rilasciata a “Rolling Stone India”.
Proprio al mondo delle corti si ispira il brano d’apertura “Sona ra button banna”, tema legato ai festeggiamenti per la nascita di un principe, in cui il fluido canto, che può ricordare lo stile qawwali, è sostenuto dall’harmonium e dal ritmo di tamburi e castagnette. Alternanza tra solista e coro in combutta con le percussioni tanto in “Breathing Under the Water” quanto nella romantica “Janwariyo”. In “Dhanra Saheba ji”, un canto nuziale che loda la bellezza della sposa, il sarangi svolge un ruolo centrale, intersecandosi con le linee vocali: siamo di fronte a uno dei punti alti del disco. Segue lo strumentale “Lullaby”, dove si fa fitto il dialogo tra il cordofono suonato da Sabri Khan e le tabla. Scorre melodiosa “Nagar bêle”, in cui la pianta assurge a simbolo dell’amore eterno. Dalla trionfale “Royal Dance of Rajasthan Ghoomar” si passa di nuovo al tema amoroso, cantato in “Badila Ieta”. Si entra, poi, nei quattro e passa minuti di intricato intervento solista alle tabla di Amrat Hussein, comunque sostenute da un bordone. Chiude l’album “Begha ghra ayo”, un motivo sullo stato d’animo generato dalla distanza dall’amato.
“Times of Maharajas” è l’occasione per avvicinarsi a una poetica musicale che richiama tempi antichi ma garantisce il groove, è attualizzata senza eccessi e con seducente e gioiosa passione.
Ciro De Rosa
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