Yinon Muallem – Back Home (Galileo Music, 2019)

“Back Home”, il nuovo album di Yinon Muallem non poteva avere un titolo migliore. Parafrasando alcuni passi delle note di presentazione della label tedesca Galileo, questo lavoro (scritto per intero da Muallem e arrangiato, a parte alcune eccezioni, da Orel Oshrat) è un nuovo tentativo di musicare quel groviglio di sensazioni legate non tanto al ritorno a casa, ma a ciò che è casa. Certo, non è una questione semplice. E non lo è certamente per chi, come Muallem, nato da genitori iracheni, è cresciuto e ha vissuto buona parte della sua vita in Israele, per poi trasferirsi in Turchia, dove attualmente vive con sua moglie. Si potrebbe però dire fin da qui che queste dislocazioni hanno reso il suo stile riconoscibile. Da un lato perché sono confluite in una forma di etno-jazz libera e colma di riferimenti multipli, extra-territoriali. Dall’altro perché sembrano avere un riflesso anche sul suo percorso formativo: prima studia percussioni “latine”, poi si concentra sul mondo delle middle east percussion, e infine “ritrova” l’oud, studiato prima in Israele (grazie al padre) e poi in Turchia con il maestro Yurdal Tokcan. Proprio l’oud diviene in “Back Home” il suo strumento principale, al quale affida le narrazioni principali delle dieci tracce che compongono l’album. E, come si può immaginare, si tratta di una narrazione morbida, ancorché decisa, fluente e apertissima. Gradualmente trovano spazio, nel quadro di una scrittura a trame larghe che lascia spesso spazio a interventi più estemporanei, pochi ma significativi strumenti: pianoforte, voci, contrabbasso, duduk (flauto ad ancia doppia originario dell’Armenia), batteria e percussioni. Se escludiamo il duduk, gli altri strumenti sono presenti in quasi tutti i brani, partecipando a quell’idea di alternanza ritmica e melodica che ci sembra, fin dai primi ascolti, in perfetto equilibrio con la traiettoria dell’album. In un brano in particolare, si può notare la bellezza del dialogo tra i musicisti. Si tratta di “Hicaz Sirto”, una delle “chiavi” dell’album, posizionata come un pendolo perfetto appena prima la metà della scaletta. Fin dall’introduzione, affidata al contrabbasso e a qualche tocco secco di percussione, si percepisce una spinta diversa, forse un grado diverso di improvvisazione, un’apertura maggiore verso una melodia più articolata, costruita gradualmente, anche se definita quasi per intero fin dalle prime note, e affidata prima al pianoforte e poi all’oud. Una volta che i due strumenti raggiungono l’apice della melodia, sorretti dalle percussioni, che procedono dentro un ritmo netto, il brano si spegne in unisono, provocando un salto timbrico perfetto. Alla fine di questa sospensione troviamo un nuovo pattern di percussioni, che procedono con un incedere frenetico, alternando suoni differenti e introducendo una seconda parte del brano, più ritmica e cadenzata. In questo quadro sia pianoforte che percussioni agiscono nel doppio ruolo di strumenti melodici e ritmici, preparando l’ascoltatore a una vera e propria esplosione, che si risolve negli unisono della coda. Insomma c’è tanto da ascoltare e c’è molto di cui stupirsi. Forse uno dei perni dell’album è “Perfect day” di Lou Reed. Sebbene Muallem non abbia aggiunto molto sul piano melodico, scegliendo di aderire alla linea originale del canto (si può fare diversamente?), possiamo dire che la sua versione è straordinaria, sia riguardo gli arrangiamenti che l’interpretazione generale. Innanzitutto non indugia sulla formula della ripetizione, lasciandoci una versione in cui il ritornello è ripetuto solo due volte, e dove si ricava alcuni spazi strategici per un’interpretazione modulata sul timbro della sua voce e di Sivan Oshrat. In secondo luogo, decide soltanto di evocare l’andamento contemplativo e ipnotico del brano originale: da un lato arpeggiando poche note reiterate con il pianoforte, dall’altro lasciando il ritornello semplicemente sospeso, con un’armonia di due voci profonde e poche note di sottofondo. Oltre ai già citati, tra i brani migliori vi sono “The way of soul”, “Times shalom” e la dolcissima “Desert song” di Rafi Kadiszon. 


Daniele Cestellini

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