Il Kronos Quartet non poteva regalarci una visione più nitida dell’orizzonte “tradizionale” persiano. In questo splendido album “Placeless”, in cui collabora per la prima volta con le due cantanti iraniane Mahsa e Marjan Vahdat, si riesce a cogliere un’attenzione magnetica verso i suoni, la varietà interpretativa di voci e strumenti, oltre che, più in generale, la poesia di grandi narratori. I quali, per tramite delle voci forti e profonde delle sorelle Vahdat, arrivano diretti come meglio non potrebbero, schietti e soavi allo stesso tempo, con lo strascico irresistibile di una musicalità elaborata, condensata nelle voci e nelle corde. Il programma di questo album sontuoso ha come filo rosso ciò che potremmo riconoscere in una dimensione temporale trasversale (a tratti archetipica, pre-moderna), una dimensione rallentata per favorire la ricerca, lo studio, la riflessione e, poi, l’interpretazione. Quest’ultima chiude un cerchio che, immaginiamo, si è andato tratteggiando pian piano, una volta individuati e (appunto) studiati tutti gli elementi che vi dovevano entrare. Le corde del Quartet sono forse il primo e l’ultimo tratto. L’ultimo perché fungono da congiunture, da connessioni tra elementi tanto eterogenei quanto aderenti a una stessa visione (sensibilmente incisa in una dilatazione epica), fornendo coerenza ed un’estetica equilibrata e ineccepibile. Il primo perché, probabilmente, hanno acceso la scintilla, iniziando a muovere tutti i tasselli che, gradualmente, hanno preso posto nel programma. D’altronde il quartetto – fondato dal violinista David Harrington nei primissimi anni Settanta – non si lascia certo intimidire dalla “natura” (provenienza? tradizione? forma?) delle musiche che decide di interpretare.
Si potrebbe dire piuttosto che non esisterebbe se così non fosse. Come è noto, infatti, nell’arco di una lunga carriera ha interpretato repertori a dir poco eterogenei, contribuendo a riconciliare pubblici e musiche spesso agli antipodi: Hendrix, Monk, Bjork, ma anche folk songs e repertori musicali africani, così come musiche minimaliste e contemporanee (tra cui, ricordiamo, l’imperdibile “Kronos Quartet Performs Philip Glass” del 1995). Qui, chiamando in causa le Vahdat (per tramite verosimilmente anche della attivissima label norvegese Kirkelig Kulturverksted, con cui Mahsa collabora dai primi anni Duemila) si spingono fino all’Iran, per connettere corde e voci a una tradizione poetica imperniata, allo stesso modo, nel passato e nel nostro presente. Scorrendo il libretto dell’album (da cui si estrapolano informazioni preziose, a partire dai testi, trascritti in lingua originale e in inglese) incontriamo, infatti, i nomi che incardinano la narrativa persiana: a partire dai poeti mistici Jalal ad-Din Rumi e Hafez, fino ad arrivare alla poetessa Forough Farrokhzad (scomparsa nel 1967) e ai contemporanei Mohammad Ibrahim Jafari e Atabak Elyasi. Le quattordici poesie in scaletta sono ovviamente suonate dal Kronos, che attualmente comprende, oltre al fondatore, John Sherba (violino), Hank Dutt (viola) e Sunny Yang (violoncello). Sono “melodizzate” da Masha Vahdat, che riesce a elaborare linee melodiche avvolgenti e oniriche, come nei brani di Rumi: “Placeless”, “My ruthless companion”, “I was dead”, “Lover, go mad” e il sinuosissimo “Eternal meadow”. Per quanto riguarda, infine, gli arrangiamenti musicali, si può riconoscere una certa differenziazione, che entra in un quadro narrativo molto preciso, sul piano del ritmo e della metrica, come un elemento trasversale che rende ancora più profonda e raffinata l’intera poetica dell’album. Non è un caso che, in questo comparto, intervengano diversi musicisti: il compositore Sahba Aminikia (che arrangia ben sei brani, tra cui “Vanishing lines” di Hafez, uno dei migliori in scaletta), il compositore e trombonista statunitense Jacob Garchik (il quale vanta una lunga collaborazione con il Quartet) e la giovane compositrice e pianista Aftab Darvishi, che firma la struggente “Far away glance”.
Daniele Cestellini
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