Daniele Sepe – The Cat with the hat (MVM/Goodfellas, 2019)

#BFCHOICE

Ritorna il sassofonista, compositore e agitatore musicale partenopeo con una celebrazione dell’arte musicale di Gato Barbieri, il musicista che ha innervato il jazz con la musica popolare della sua Argentina. “The Cat with the hat” è il BF-Choice del mese di aprile.

Daniele Sepe mette da parte la bandana di Capitan Capitone, per indossare il borsalino del celebre sassofonista Gato Barbieri. “The Cat with the hat” è il titolo del nuovo disco del sassofonista e compositore napoletano, sbrigativamente etichettato come tributo al musicista argentino. Per contro, di brani scritti da Gato non ce n’è che uno, “Nunca Mas”, mentre un altro che Barbieri aveva in repertorio (“Lunita Tucumana”), che Sepe porta in dote nel suo repertorio, è di un altro immenso argentino, Atahualpa Yupanqui. Piuttosto, il disco, in prevalenza strumentale, ideato e costruito insieme a Hamid Drake e Stefano Bollani, è una dedica affettuosa alla cifra musicale di Barbieri. Sepe ha scelto brani che avrebbe potuto interpretare con il suo stile: parliamo di un artista il cui sound portava l’impronta sonora del continente latinoamericano e che è stato stella polare per il musicista partenopeo, con il suo fraseggio legato e melodico, quel suono graffiato, che – racconta Sepe nelle interviste e nelle note di presentazione del lavoro – «ricordava un po’ Pharoah Sanders o Coltrane, ma percepivo subito il luogo dove era nato e la lingua che parlava “El Gato”, anche solo quando suonava il sax». Com’è diventata sua abitudine, per questo suo nuovo “canzoniere internazionale”, Sepe ha chiamato a raccolta una composita combriccola di amici musicisti. 
Oltre al versatile batterista e all’indaffaratissimo pianista, ci sono, tra gli altri, Roberto Gatto, Lavinia Mancusi, Roman Gomez, Arlen Acevedo, Roberto Lagoa, Robertinho Bastos, Peppe Frana, Dario Sansone, Roberto Trenca, Alessandro d’Alessandro i fidati sodali Tommy De Paola, Franco Giacoia e Piero de Asmundis. “Blogfoolk” ha raggiunto il cinquantottenne sassofonista napoletano, il quale ci introduce all’album di calorosa riconoscenza all’arte di El Gato. 

Gato Barbieri è uno dei tuoi numi tutelari e guardando al tuo percorso artistico non è casuale che tu abbia deciso di rendergli omaggio con un album…
Nei dischi precedenti avevo già inciso alcuni brani di Gato Barbieri ma questa volta ho voluto fare qualcosa di un po’ diverso. Avevo in programma di registrare un album su Frank Zappa con Hamid Drake, ma poi ho pensato che era stato già omaggiato abbondantemente da vari artisti, mentre invece di Barbieri un po’ si sono perse le tracce. Questo anche perché, secondo me, il suo modo di suonare è molto particolare e non affascina tutti i sassofonisti. In genere, i miei colleghi sono più attratti dal fraseggio che dall’aspetto melodico. Dunque, mi è sembrato naturale che lo facessi io.

“The Cat With The Hat” non è però un disco tributo in quanto tale con riletture di brani, ma trovano posto composizioni tue e incursioni in altri repertori. Tutto ciò è significativo per comprendere come Gato Barbieri sia stato un punto di partenza per il tuo personale percorso di ricerca…
Diciamo la verità, il discorso è che un po’ tutto il mio percorso è stato segnato da questa cosa. Questo nuovo album somiglia un po’ a quello dedicato a Victor Jara, almeno dal punto di vista musicale e quindi è una cosa conseguenziale. Tutto è venuto fuori in modo molto naturale: ci siamo divertiti molto. Penso che si avverta anche nell’ascolto. C’è stato prima un lavoro di ricerca su cosa e come farlo, poi siamo andati lisci senza tanti problemi. Il disco è stato, poi, finalizzato in tre giorni.

Vieni da due dischi con il progetto Capitan Capitone, lavori sostanzialmente diversi dal punto di vista concettuale e musicale…
Il progetto Capitan Capitone è stata molto simpatico ma anche abbastanza leggero, almeno dal punto di vista dell’impegno nel suonare per me. Abbiamo lavorato essenzialmente sulla forma canzone, mentre questo nuovo album è più indirizzato ad esplorare l’aspetto strumentale della musica. È ovvio che ci sono delle differenze evidenti. Ogni tanto m’aggia leva’ ‘o sfizio di fare qualcosa che è un po’ più complesso ed è più vicino al mio approccio musicale. Sicuramente. farò un terzo capitolo di Capitan Capitone ma sarà qualcosa di molto diverso dai due che lo hanno preceduto. L’obiettivo di mettere la lente di ingrandimento sulla scena musicale napoletana penso sia stato colto e anche molto bene: ora vorrei fare un lavoro dal taglio più internazionale, qualcosa di più vicino a quello che feci a suo tempo con Brigata Internazionale.

Il tuo incontro con la musica di Gato Barbieri lo racconti nelle note di copertina. Cosa ti ha rapito del modo di fare musica del sassofonista argentino?
L’incrocio tra la sua cultura popolare, su quello che succedeva intorno a lui e quella che era la musica sudamericana che lui riproponeva, riuscendo a rimanere un jazzista. È una cosa che a me interessava perché avevo l’esigenza di trovare un modo per fare un lavoro sulla musica che mi appartiene, che è quella del Sud Italia. Del resto, poi, è quello che ho fatto negli anni successivi. Tutti i dischi realizzati fin dall’inizio hanno beneficiato dell’eredità di questo sassofonista che aveva trovato il modo di coniugare la musica tradizionale del suo Paese con quello che aveva fatto John Coltrane in precedenza.

Dall’amore per Barbieri alla sua influenza nella tua musica. Dove ti ha portato questo disco?
Ho tenuto conto anche dell’esperienza del free degli anni Sessanta e Settanta, perché mi interessava mettere a proprio agio anche Hamid Drake che – come sai – è un batterista che viene da esperienze molto diverse, in grado di passare dalla scena free-jazz di Chicago e New York a Bill Laswell e i Material.

Alle registrazioni del disco ha partecipato un ampio ensemble di musicisti, che si alternano al tuo fianco, da Roberto Gatto, con il quale stai suonando spesso negli ultimi anni, a Stefano
Bollani, con cui hai firmato il progetto “Napoli Trip”, fino ai vari musicisti argentini e brasiliani… 
L’incontro con Stefano Bollani è stato per me fondamentale, perché ho cambiato il modo di lavorare con gli altri musicisti, cercando di essere più rilassato e lasciando molto più spazio e possibilità all’improvvisazione. Poi mi sono reso conto che aveva sturia’, dovevo studiare, perché avevo ancora tanto da imparare sul sassofono e sulla musica improvvisata. Insieme a Roberto Gatto ho registrato un disco che verrà pubblicato nei prossimi mesi. Entrambi siamo molto appassionati di Joe Zawinul, lui ha avuto anche la fortuna di suonarci insieme. Questa cosa si collega all’approccio musicale di Gato Barbieri, perché Zawinul è un altro nel suo stile ha messo insieme musica tradizionale e jazz. In questo mi ci ritrovo molto. Fortunatamente, c’è tanta gente che mi vuole bene, ho a disposizione tanti musicisti che sono capaci di fare cose eccezionali come gli argentini Roberto Trenca, Roberto Lagoa e Roman Gomez, che sono bravissimi nel suonare il repertorio tradizionale del proprio Paese. Poi ci sono i napoletani con cui mi accompagno da sempre e che in ogni disco mi hanno dato una mano. Anche in questo sono stati tre giorni in cui siamo stati proprio bene e questa è la cosa importante.

Come hai scelto i brani da rileggere nel disco…
Ho cercato di immaginarmi come avrebbero suonato quei brani con gli arrangiamenti che faceva solitamente Gato Barbieri.
Mi sembra che abbia funzionato perché tutto il materiale che ho selezionato ha un aspetto melodico importante come “La Partida”, ma anche quelli più duri come “Song For Che”, che viene dal repertorio classico della Liberation Music Orchestra di Don Cherry, quindi della parte più free della musica jazz. Questo brano, per esempio, ha una melodia fortissima e riesce a mantenere ancorata sulla tradizione anche un’esecuzione molto complicata dal punto di vista strumentale. 

Come hai approcciato la versione di “Love Theme From Spartacus”?
Conoscevo il tema originale del film e mi sono andato a rivedere quelle che erano le riletture che avevano fatto alcuni musicista jazz come Bill Evans o Yusef Lateef, ma ho notato che avevano troncato la parte finale del tema. Secondo me era interessante perché all’interno aveva delle successioni melodiche che avevano a che fare con la musica sudamericana e spagnola. Suonando il brano per intero ho visto che si inseriva perfettamente nell’idea base del disco. Ho scelto, quindi, di utilizzare le sedici battute che nelle altre versioni jazz invece erano troncate.

“Montilla” è un canto di lotta venezuelano: nella sua scelta c’è una connessione con l’attuale situazione politica di questo paese?
In realtà l’ho scelta molto prima che succedesse tutto quello che a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi.
Molti dei dischi di Gato Barbieri degli anni Settanta avevano un contenuto politico evidente e mi è sembrato naturale inserirlo. Del resto tutti i brani li ho scelti in primo luogo perché mi piacciono, li considero molto belli e voglio farli conoscere al pubblico italiano.

Nel disco sono presenti due brani dal repertorio di Atahualpa Yupanqui: “Los Ejes De Mi Carreta” e “Io non canterò alla luna”, bella versione in italiano di “Lunita Tucumana”, che tu spesso ha suonato in concerto…
La scelta di cantare in italiano “Montilla” e “Lunita Tucumana” nasce dal fatto che negli ultimi anni sto collaborando spesso con Vinicio Capossela. Lui ha affrontato molti dei brani che ho in repertorio, tra cui “Los Ejes De Mi Carreta” di Atahualpa Yupanqui. Vinicio ha avuto l’intuizione di trovarci un testo in italiano, rendendolo immediatamente più coinvolgente e fruibile per un pubblico come il nostro. Io ho sempre fatto operazioni in cui era molto presente l’idea di salvare il testo originale, ma questa cosa non funziona molto. Cantare in italiano un pezzo che in origine è in un'altra lingua, te lo rende disponibile in quello che è il significato delle parole. 

L’unico brano firmato da Gato Barbieri presente nel disco è “Nunca Mas”…
Fondamentalmente nella versione di Gato non c’è la batteria, ma ci suonavano Dino Saluzzi al bandoneon e Osvaldo Berlingieri al piano, due musicisti straordinari. Quella è la versione più bella da ascoltare. Io l’ho voluta suonare in questo disco perché mi sembrava un pezzo adatto in quel contesto e almeno un brano del suo reperto volevo farlo. Inoltre è un brano che suono sempre dal vivo con Roberto Gatto.

Uno dei vertici del disco è “Donne d’Irlanda” che è il tema del film “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick suonato dai Chieftains…
Ho sempre amato la melodia di questo brano. Tieni presente che la musica irlandese per me è stata sempre un'altra grande passone e ho avuto, tra l’altro, anche la fortuna di suonare dal vivo con i Chieftains. La questione è sempre quella melodica e, devo dire, anche a Gato non gliene fregava abbastanza, perché suonava brani brasiliani o che non fossero propriamente argentini, mi sento autorizzato in questo.

Sei un grande appassionato di cinema e Gato Barbieri è noto per aver firmato la colonna sonora di “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci. Come mai non hai riletto il tema di questo film?
Ho preferito scegliere “Love Theme From Spartacus” e “Donne d’Irlanda”, due brani che avessero la stessa intensità melodica ma venivano da un altro pianeta, piuttosto che riprendere proprio quel tema.

Con il tango “Naranjo en flor” il disco si avvia verso la conclusione. La storia di questo brano è particolare.. 
È un omaggio tanto alle radici musicali di Gato Barbieri, quanto – e soprattutto – alla nostra storia perché è stato scritto da Virgilio e Homero Exposito, due italiani di origine napoletana. Il loro cognome è inequivocabile.
Mi è sembrato anche giusto, a parte la bellezza del pezzo, riflettere anche sul fatto che noi siamo stati e siamo ancora oggi emigranti, eppure abbiamo questa enorme difficoltà a capire che l’accoglienza è un dovere morale ed etico.

Questo ci ricollega a “Canzone Appassionata”, si parte e si torna a Napoli…
Il tango classico così come la canzone napoletana hanno molti punti di contatto perché l’origine dei musicisti tangueri era italiana. Insomma, mi è sembrato naturale fare questi riferimenti…

Il disco si chiude con “Odio l’inverno”, in cui c’è un riferimento alla melodia di “Estate” di Bruno Martino…
Amm passat na’ vernata ‘e merd.. (ride, ndr). L’originale ha la caratteristica di essere molto melodico. È un brano che hanno suonato molti musicisti jazz e io ho deciso di cambiare la melodia, di spostarla anche dalla nota di partenza e renderla più barbieresca, avendo un atteggiamento un po’ diverso che mi sembra abbia funzionato abbastanza bene.

Anche questo disco lo ha finanziato con il crowdfunding e pubblicato in formato CD…
La campagna è andata molto bene e anche il disco fortunatamente sta funzionando. Mi ha sorpreso vedere il CD in testa alla classifica di vendita di Amazon tre giorni dopo l’uscita. Questo è significativo per capire che c’è pochissima gente che compra i dischi.
Non ho fatto “The Cat With Hat” per accontentare la critica tradizionale ma per chi mi segue. Essendo un lavoro completamente autoprodotto, doveva essere fatto in questo modo, ma per i prossimi dischi in uscita, non so se userò ancora questo strumento, perché probabilmente abbiamo una produzione. 

Come porterai in tour “The Cat With The Hat”?
L’intento è quello di portare in tour un sestetto con Lavinia Mancusi alla voce, Roberthino Bastos, Tommy De Paola, Davide Costagliola e, quando è in Italia, sicuramente Hamid Drake o Claudio Romano, quando manca il primo.

Concludendo volevo rubarti qualche indiscrezione sui tuoi progetti futuri…
Come ti dicevo abbiamo già pronto il disco con Roberto Gatto, per il quale non bisognerà attendere molto. In cantiere ho anche un lavoro con il quartetto Blues Unlimited con Mario Insegna, Gennaro Porcelli e Gigi De Rienzo che, invece, stiamo registrando in questi giorni.


Salvatore Esposito
Foto di Natalino Basso

Daniele Sepe – The Cat with the hat (MVM/GoodFellas, 2019)
Mettere in scaletta una dopo l’altra “La partida” di Victor Jara e “Song for Che” di Charlie Haden & Liberation Music Orchestra c’è da aspettarselo solo dall’agitatore sonoro Daniele Sepe, che poi è uno che se lo può permettere. Chi lo segue da almeno ventotto dischi di carriera (ma di note ne ha messe in circolo molte di più, impreziosendo numerosi lavori altrui) si è abituato ai ribollenti intrecci, ai rimandi, alle citazioni, alle dichiarazioni d’amore (musicale) e alle provocazioni, alle convivenze del tratto colto e di quello popolare, agli approfondimenti didattici portati a note spiegate. Qui, l’attacco per plettri e quena sembra portare diritto sul versante musicale andino cileno, ma l’ingresso del sax tenore, le percussioni latine, il basso e le tastiere squarciano le attese dirigendosi verso il tocco torrido e impetuoso del Gato. Parliamo di un artista il cui sound portava l’impronta sonora del continente latinoamericano e che è da sempre una stella polare per il musicista partenopeo. La splendida esecuzione del “Canto per il Che”, invece, vede all’opera due batterie e due bassi: Hamid Drake ed Aldo Vigorito da un lato e Roberto Gatto e Davide Costagliola dall’altro. Un cinefilo come Sepe non poteva farsi sfuggire l’occasione di mettere la sua ancia sul tema “rivoluzionario” del kubrickiano “Spartacus”, complice il piano di Bollani, per poi lanciarsi nell’ardito fraseggiare di “Montilla”, in cui canta Lavinia Mancusi; è una canzone popolare boliviana, un golpe tocuyano, dove convivono ritmi ternari e binari, tributo a un generale bolivariano. Insomma, ritroviamo il Sepe di “Conosci Victor Jara?” e quello della Brigada Internazionale, ma anche l’artista che non rinuncia mai alla veracità partenopea classica di “Canzone appassiunata”, seppure riadattata in una versione straniata, tra tocchi di berimbau e profluvi di jazz elettrico. Poteva mancare Atahualpa con la sua incalzante milonga “Los ejes de mi carreta” e ancora con la rilettura di “Lunita tucumana”, altro standard del “paydor perseguido”, il cui testo tradotto in “Io non canterò alla luna” è cantato da Dario Sansone? Certo che no! Yupanqui è un altro punto fermo per chiunque si rivolga alla storia musicale dell’America Latina, Barbieri e Sepe compresi. Emoziona “Nunca mas”, il vigoroso tema del sassofonista di Rosario, punteggiato dall’organetto di Alessandro D’Alessandro e dall’efficace drumming di Gatto, mentre l’elogio della melodia musicale irlandese (e ancora l’amore per Kubrick e il suo “Barry Lyndon”) ci porta in dono le variazioni sul tradizionale “Mná na h-Éirean” di chieftainiana memoria. Segue un tango classico, “Naranjo en flor”, dolce omaggio tanto alle radici musicali di Barbieri quanto alle storie di migranti italiani del secolo scorso, dal momento che è stato scritto da Virgilio e Homero Exposito, due italiani di origine napoletana. Infine, il commiato di “Odio l’inverno”, brano sepiano che ringrazia Bruno Martino, ma mette le cose in chiaro su quali temperature, non solo sonore, il Capitone, prediliga. ‘O zi’ Sepe ha attraccato di nuovo in porto, è sceso a terra insieme a una ciurma di irresistibili musici per suonarcele, incantandoci con note mai superflue, che ci fanno ragionare e viaggiare, tra memoria e contemporaneità, Non gli fate torto! 


Ciro De Rosa

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