La musica degli University of Gnawa reinventa un contagioso spirito panafricano, lancia un messaggio di fraternità (“Entre Voisins”) e invita nei suoni e con le parole all’incontro con l’altro, a fare i conti con le nostre paure: è esplicita la seconda traccia del loro terzo album, ”Nogcha”, nel denunciare come sia proprio la paura dell’altro a farsi nemica della ragione, della capacità di aprirsi e dar senso alla vita attraverso la scoperta. Ma anche in queste narrazioni dolorose non viene mai a mancare il sostegno e il calore delle voci che in coro offrono lenimento all’esperienza della sofferenza. Tutti i musicisti dell’University of Gnawa si uniscono nei cori.
Nato a Marrakesh, Aziz Sahmaoui ha saputo agitare a dovere i palchi world, prima con l’Orchestre National de Barbès a Parigi, dove si è trasferito nel 1983, poi con collaborazioni di prestigio come quelle con Sixun e con Joe Zawinul. Nel 2010 Aziz Sahmaoui e il senegalese Alioune Wade condividevano l’esperienza nel Zawinul Syndacate. Sahmaoui sapeva che Wade poteva essere il bassista ideale per esplorare e cominciare ad arrangiare alcune sue composizioni. In breve il Club Kawa, a Parigi, divenne la loro base e nel gruppo vennero coinvolti il percussionista tunisino Adhil Mirghani (darbuka, bendir, djembé), e i senegalesi Hervé Samb, chitarra, e Cheikh Diallo, tastiere e kora. L’ispirazione di base viene dal rinnovare l’incontro dei ritmi Gnawa con le musiche subsahariane e nel tempo ha integrato nell’attuale settetto Amen Viana (chitarra), e Jon Grandcamp (batteria).
Per questo terzo album registrato nei Jet Studio di Bruxelles sono stati raggiunti da Cyril Atel (batteria) e Rime Sahmaoui (voce) e da un produttore d’eccezione, Martin Meissonnier (già con stelle del calibro di Manu Dibango, Fela, King Sunny Ade, Papa Wemba, Khaled). Per Aziz Sahmaoui, la tagnawite, la musica degli Gnawa è parte integrate di una cultura maghrebina e africana che va dall’Atlantico al Golfo Persico e sa far dialogare il sacro e il profano. Al centro stanno le corde del guimbrì e le percussioni karkabous (è esemplare in tal senso “Sotanbi”), ma abilmente il settetto sa costruire intorno a questo cuore pulsante arrangiamenti che alternano felicemente momenti corali e improvvisazioni soliste, con le corde delle chitarre e della kora in evidenza e con la voce in primo piano. L’album è dedicato alla poesia perché, ci ricorda Aziz Sahmaoui «ha il potere di elevarci, è la scrittura del Cielo sulla Terra. Quando una parola trova il suo ritmo, ha la possibilità di dispiegarsi e trovare il proprio posto all’interno di un’architettura potente. Ma il poeta è anche chiamato a cantare le ingiustizie, a denunciare le fratture fra le persone, lungo le frontiere o nell’imposizione di una lingua». Questa sete di bellezza e di giustizia porta questo compositore cittadino del mondo a trovare ispirazione nel “Mu’allaqāt”, le lunghe odi pre-islamiche,
come nei versi di
Claude Nougaro, di Nass El-Ghiwane e dei proverbi berberi e a cantare in tamazight, wolof o mina. La transizione fra due canzoni sembra ben riassumere lo spirito dell’album: nel popolare brano gnawa “Gang Sound of M’birika”, Aziz Sahmaoui canta le «genti che sono accorse in massa, da ogni parte, per le festività e per questa celebrazione – per un’esperienza di terapia liberatoria del corpo e della mente». Qui la kora si fa sospingere dalle percussioni verso fraseggi vertiginosi ed altezze che poi la voce di Aziz Sahmaoui sa inseguire e raggiungere. Al termine di un brano che sospingere più in alto di quel che avreste immaginato, kora e voce ritrovano un passo quotidiano e colloquiale, capace di narrare con toni affettuosi lo spirito di resilienza delle vittime delle guerre (“Coquelicots”). «Con la musica vorrei addolcire l’amarezza, aiutare a costruire ponti fra Africa e Europe, ad allargare il nostro circolo che rimane sempre aperto». Un invito a non dimenticare, come dice “Janna”, il brano di apertura, quanto l’Africa sappia essere culla e paradiso.
Alessio Surian
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