Ester Formosa & Elva Lutza – Cancionero (Tronos Digital/Felmay, 2018)

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Il loro primo disco eponimo, “Elva Lutza” (2012), è stato accompagnato da riscontri straordinari di critica e pubblico. Gli inglesi direbbero: “They have took the [folk] world by storm”. Con la loro intraprendente metafora botanica, gli Elva Lutza sprigionano una world music minimale nel suo essere concepita per tromba, chitarra e voce (anzi nell’album d’esordio di voci magistrali ce ne erano tante). Il loro è un sound mai ridondante, sviluppato per sottrazione, distinto per le calde sfumature melodiche, la traboccante di liricità e il senso della memoria (non solo folk); tratti che costituiscono l’ossatura delle composizioni originali e della rilettura di repertori folklorici nel cui reticolo sonoro entrano dialetti sardi (logudorese e sassarese-turritano), motivi sefarditi, stilemi jazz e aperture balcaniche, oltre all’imprescindibile lezione chitarristica del folk revival inglese. Vincitori del Premio Parodi (2011) e ben piazzati discograficamente nel Premio Nazionale Città di Loano (2013), in seguito, gli Elva Lutza allestiscono “Est Torrende su Beranu”, un’opera-folk sulla figura di Gavino de Delunas e degli altri martiri sardi dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Incidono, poi, “Amada”, in collaborazione con il raffinato e carismatico cantante occitano Renat Sette. Ora, è la volta di “Cancionero” (Tronos digital/Felmay), prodotto dall’incontro umano e artistico tra l’attrice e cantante catalana Ester Formosa (già una delle voci magistrali che riempivano il disco d’esordio) e i due sassaresi Nico Casu (tromba, voce) e Gianluca Dessì (chitarre). Con loro ci sono anche l’organetto di Riccardo Tesi, le percussioni di  Bruno Piccinnu e i fiati di Dante Cossu (clarinetto), Michele Giordano (corno) e GiovanniBecciu (basso-tyuba).  
“Cancionero” distilla quindici brani, in cui mille impressioni musicali camminano sulla stessa strada. Nel corso di un loro breve tour “continentale”, che ha toccato anche la capitale, ne abbiamo parlato con Gianluca e Nico, in punta di ironia. 

Con quale spirito vi siete ritrovati per questo album? 
Nico. È il caso di dire: con entusiasmo. Non è stato chiaro da subito ma durante la preparazione del disco ci appariva sempre più evidente che i quattro anni dalla pubblicazione di “Amada” avevano fatto maturare l’esigenza di tornare in sala di registrazione. Sono sette anni che collaboriamo con Ester Formosa e questa collaborazione faceva proprio al caso nostro. Finito di registrare ci siamo accorti di aspettare con emozione il riscontro di pubblico e di critica; Gianluca ed io per i quattro anni di attesa, Ester perché incideva il suo primo disco fuori dalla Cataluña.

Quale è il progetto? Come è nata la scelta dei brani? 
Nico. Il progetto è semplice: rileggere i classici e rendere “classici” i brani recenti e quelli originali. La scelta è legata alla memoria e alla nostra formazione.
Gianluca. Sì. L’idea era quella di fare un disco di canzoni, facendo nostri alcuni classici, riproponendo cose che facevano parte dei nostri live già da anni - i brani sefarditi per esempio - e provando a inserire un paio di brani originali nati per la voce di Ester: “Cucurutxu” e “A su Tramontu”. E poi il progetto era anche presentare Ester al pubblico italiano; magari il repertorio può sembrare un po’ eterogeneo ma esiste un percorso, che parte dai brani che Ester sentiva cantati dalla mamma e dalla nonna, passa per il repertorio catalano classico - come “Exili” di Luis Llach - e alla canzone latino americana, e arriva alla scoperta dei brani d’autore italiani. In realtà Ester aveva già cantato Paolo Conte in precedenti lavori usciti solo in Spagna. 

In questo percorso che è anche una babele di suoni e ispirazioni musicali esiste, quindi, un filo conduttore!
Nico. Il filo conduttore principale è di carattere musicale e prende per riferimento la bellezza della melodia. Siamo convinti che una bella melodia possa sopperire a un testo non particolarmente felice e che possa anzi essere veicolo efficace del testo stesso. In questo caso però, lasciatevelo dire, anche i testi sono bellissimi.
Gianluca. Tutto è legato dall’arrangiamento di Elva Lutza: minimale, colto, ma sempre un po’ “tongue in cheek”, sul filo dell’improvvisazione, del gioco e dell’umorismo. Rispetto al disco con Renat Sette, il sound è molto più “Elva Lutza”, fra tempi dispari, armonizzazioni un po’ azzardate e poca voglia di prendersi sul serio.

Nell’album la voce femminile è centrale. Cosa porta Ester nella sua valigia di artista catalana?
Nico. Sì, la voce di Ester è centrale ed essendo la sua voce elegante e mai aggressiva, tutto si conforma a questa cifra. Ester nella sua valigia porta la tradizione catalana e spagnola - couplet, zarzuelas, coplas eccetera -  e le canzoni popolari che ha ascoltato fin dalla sua infanzia, attraverso i dischi e le voci di sua madre e di sua nonna, come accennava prima Gianluca. E poi porta l’esperienza del teatro: le canzoni da Cabaret, i poeti e i cantautori, non solo catalani.
Gianluca. Ester ci conosce fin troppo bene e si è fidata; suoniamo insieme dal vivo da tanti anni e alla fine sopporta anche le nostre bambinate. 

La chitarra di Gianluca si muove tra moduli di folk inglese e mondo sardo. Quali sono i rapporti con la tradizione isolana, soprattutto del nord della Sardegna? 
Gianluca. Posso dire di avere tre punti di riferimento: il mondo sonoro del folk d’autore inglese anni ‘60/’70 (Bert Jansch, Nick Drake, John Martyn), la musica dell’Est Europa, in particolare della Bulgaria, dove ho vissuto e dove ho scritto la mia tesi di laurea sui ritmi irregolari - che per loro sono regolarissimi - e la Sardegna. Suonando con il longevo gruppo di world music Cordas et Cannas ho approfondito i repertori da ballo; Nico e io facciamo parecchie cose mutuate dai repertori a chitarra: il cosiddetto "Canto in Re".
Nico. E infatti, dal canto mio, posso dire di avere a mente le melodie delle musiche della Sardegna, soprattutto dei canti a chitarra. Il merito è di mio padre, che era un appassionato e, oltre a possedere molte audiocassette, seguiva le esibizioni dei migliori cantanti e poeti improvvisatori; lui stesso era un buon interprete. 

E avete creato un indubbio equilibrio tra repertori distanti. Dipende dal fatto che il vostro suono è minimale, e quindi nasce da un lavoro “di fino”? È stato difficile?
Nico. In effetti abbiamo equilibrato le distanze geografiche e quindi stilistiche. Non è stato particolarmente difficile: abbiamo semplicemente trattato questi brani come se li avessimo scritti noi, oggi, con la sensibilità e il gusto che ci guida, fino al punto in cui sentiamo che, semplicemente, il brano è compiuto. Tra dieci anni potrebbe essere diverso e, anzi, dovrebbe essere così a rigore. Per quanto riguarda il suono, è minimale giocoforza, perché minimo è l’organico. E questo ci costringe, piacevolmente, a concentrare l’ attenzione sulle sfumature e sulla intensità dell’interpretazione. Su ogni frase. 
Gianluca. Ma sì. Lo strumentario ridotto è, paradossalmente, un vantaggio: sappiamo cosa siamo o non siamo in grado di fare con i pochi mezzi che abbiamo. Il rischio è cadere nell’accompagnamento da... spiaggia, ma per fortuna, questo non è mai accaduto. Anziché aggiungere siamo costretti a lavorare “per sottrazione”, ma , credo, abbiamo raggiunto un equilibrio di suono che copre quasi tutte le frequenze. Io suono fingerstyle, per cui riesco a tenere indipendenti la parte melodica e quella armonica e di contrappunto, tramite dei bassi molto presenti. A volte diamo l’illusione acustica che sia presente anche un contrabbasso; inoltre nel live fa parte della squadra anche il percussionista Bruno Piccinnu, dei Cordas et Cannas, che, oltre a costringerci ad andare a tempo, rende il suono più accattivante, pur usando un set minimalissimo. 

Cosa rappresenta per voi il canzoniere di Luis Llach, autore che riprendete con una sua canzone?
Nico. Luis Llach è forse il più grande cantautore catalano. Citarlo nel nostro canzoniere era d’obbligo. Il momento delicato che vive attualmente la Cataluña rendeva ancor più pressante la presenza di questo artista, che ha sempre dichiarato il desiderio di appartenere a una Cataluña indipendente, affrancata dalla monarchia dei Borbone, figlia del Franchismo.

Inevitabile chiedervi, come mai avete scelto un inizio inusitato con “Cielito Lindo”?
Gianluca. L’idea di misurarsi con un classicone è sempre interessante. Una strofa è stata ri-scritta e anche nella parte armonica e melodica ci siamo presi delle licenze. 
Nico. Alcune canzoni contengono un segreto che non si può spiegare, fatto sta che fanno il giro del mondo e durano nel tempo. Dobbiamo per forza riconoscer loro una qualche grandezza, anche se si tratta di forme semplici, e accostarle con rispetto. Si tratta di piccoli capolavori di “arte povera”. Riuscire a reinterpretarle dando loro una veste personale è un piacere molto simile a quello che provano i jazzisti nel rileggere un motivetto tratto da un musical.

E da dove arriva l’incursione nella canzone d’autore di Stefano Rosso? Chi lo ama così tanto? E Bruno Lauzi?
Gianluca. Io sono un grande fan di Stefano Rosso: ci sono tre dischi che venero come capolavori. Penso che se ne parli troppo poco e invece credo che i suoi dischi migliori siano di livello stratosferico. 
Ricordo ancora quando Ester ha sentito per la prima volta “Girotondo” e ha detto: «Ok, scelgo questa». Per quel che riguarda Lauzi,  ha scritto cose incredibili, maneggiando benissimo sia la parte testuale che quella musicale. Aveva pure una voce del tutto particolare. Credo che “Menica Menica” faccia benissimo il paio con “Girotondo”: brani brevi e, a loro modo, poetici e raffinatissimi. 
Nico. Nei brani di Rosso e Lauzi avvertiamo la possibilità che possano diventare “classici”, anche se sono considerati minori nella produzione dei due artisti. Da questo punto di vista riproporli è il nostro piccolo contributo.

Come è caduta la scelta su “Lune”, scritta a quattro mani da Carlo Muratori e Riccardo Tesi?
Nico. Riccardo Tesi è un amico oltre che un maestro: volevamo averlo nel disco e abbiamo pensato di ricambiare rendendogli omaggio. 
Gianluca. Sì! Riccardo è un amico di lunghissima data. Io lo frequento da venticinque anni. “Lune” è un omaggio e un ringraziamento a lui, che è uno dei grandi della world Italiana. E poi è un nostro sostenitore da sempre. Suona anche in “A su Tramontu”, in un solo che ricorda un meraviglioso notturno di Chopin. 

“Cucurutxu” è forse la canzone di punta di tutto il disco. Come nasce?
Nico. Cucurutxu è il gelato nel cono. Ed è il soprannome della nipote di Ester, che si chiama Agnes e da piccola si buttava sui gelati fino a diventare ella stessa un gelato. L’ispirazione musicale arriva dalla “Moresca del Gatto” di Roberto de Simone e nasce per assonanza tra le parole “cucurutxu” e “cucurucu miao miao”, che è appunto il ritornello della Moresca. Anche il testo è legato a una villanella della Gatta Cenerentola, che si ripromette di acchiappare il suo “suricillo”, cioè il suo topolino: in “Cucurutxu” la fanciulla tesse una ragnatela dove cadrà un giovane ricco e innamorato; si tratta di un tema largamente presente nelle canzoni popolari di tutto il mondo.
Gianluca. È il mio brano preferito, il brano più “Elva Lutza” del disco.

Parliamo anche di altri due pezzi forti: "A su Tramontu", al quale hai già accennato prima, e di “Drume”.
Gianluca. “A Su Tramontu” è l’altro originale del disco, un modulo melodico mutuato dal “Canto in Re”: è un brano che descrive il riposo dopo l’amore. Armonicamente è talmente complesso che ancora devo leggere lo spartito quando lo suono. “Drume” invece è un mash-up di tre ninna nanne; la prima è catalana ed è un brano natalizio che si chiama “El Noi de la Mare”: da sempre fa parte dei nostri concerti; poi c’è "Drume Negrita", canzone del pianista cubano Bola De Nieve; infine una ninna nanna sarda molto conosciuta: "Du Pizzineddu".
Nico. Le ninna nanne sono un capitolo importante nella musica popolare e legarle ci sembrava una scelta naturale. Le tre melodie si inseguono e si incrociano a significare la medesima funzione. E poi è anche un divertimento squisitamente musicale.

Ci avviciniamo al finale. Qualcuno si chiederà ancora come nasce il vostro nome? 
Nico. Era il lontano millenovecentottantasette, era notte e faceva freddo, il vento turbinava fuori dalla nostra sala prove, senza riscaldamento e con il tetto malandato, avevamo la febbre e neanche un soldo per le medicine, la disperazione stava per prendere il sopravvento e … no, scusa, forse ho perso il filo… quale era la domanda? 

… come nasce il vostro nome?
Nico. Gianluca, te lo ricordi?
Gianluca. Elva Lutza è la prima pornostar sovietica dell’epopea del Muto! Ma no, non è vero, però ci abbiamo giocato per anni. In sardo “S’Elva Lutza” è l’erba magica, la cosiddetta “Erba Voglio”: una cosa che tutti conoscono ma che nessuno può dire di aver mai visto davvero.

Ebbene, quale sarà la vostra prossima Erba Voglio?
Gianluca. Magari un disco in duo, perché abbiamo un sacco di materiale inedito. Nel frattempo firmiamo la colonna sonora di “Der Boxer”, spettacolo teatrale dell’attore Michele Vargiu: la storia di Johan Trollman, pugile zingaro e campione tedesco di boxe, durante gli anni del Nazismo. 
Nico. E d’altronde se è Elva Lutza.. fiorirà.


Ciro de Rosa ed Elisabetta Malantrucco


Ester Formosa & Elva Lutza – Cancionero (Tronos Digital/Felmay, 2018)
C’è bisogno di dischi come “Cancionero”, il nuovo atto artistico firmato dal duo sardo Elva Lutza insieme alla catalana Ester Formosa. Sono necessari, perché qui le note respirano, il senso melodico non si smarrisce, i timbri ti accarezzano e ti fanno viaggiare nel tempo e nei luoghi, le voci ti ammaliano. È un lavoro che appare perfino temerario in certe scelte del programma, che propone quindici canzoni, tre tradizionali e il resto composizioni d’autore; lontano dal bazar etnico, il trio apre finestre sul mondo sonoro sardo e su quello catalano, sul migliore folk italiano ma anche sulla canzone d’autore italiana. I musicisti si muovono consapevoli, perfino con spavalda leggerezza e immancabile ironia, tra grammatiche musicali diverse, intersecando la scrittura prescrittiva e quella descrittiva e connessa all’oralità e all’improvvisazione, conservando la tensione narrativa, incastrando i ruoli strumentali, scambiandosi le parti, raggiungendo un equilibrato quanto ampio spettro dei registri su cui si muovo la chitarra, nelle sue sequenze armoniche, ritmiche e melodiche, e la tromba, ora pastosa ora nitida e ariosa. Diciamo che l’apertura è spiazzante: il classicone “Cielito Lindo”, proposto in una versione rivista nella veste melodica e armonica, per vestirla da ballata d’amore. Lo splendido “Esta Muntanya D’Enfrente” ci apre all’immediatezza profonda delle metafore poetiche della tradizione sefardita, con la calda presenza dei tamburi a cronice, la chitarra di Dessì, in duplice veste ritmica e armonica e la tromba di Casu che esplora ed estende la melodia. Il superlativo “Cucurutxu” porta la firma di Nico: ecco un impianto di moresca seicentesca che incontra un duru duru sardo. Anche “A Su Tramontu” è firmato dal trombettista sassarese; è un tema molto articolato sul piano armonico, concepito sul modulo della nuoresa, espressione del repertorio del canto a chitarra sardo. Qui, l’organetto di Riccardo Tesi è il benvenuto, portatore di sapienza nell’approccio melodico e nel colore timbrico: il suo solo ricorda un meraviglioso notturno di Chopin. “Menica Menica” è il primo tributo, al grande Bruno Lauzi, con i suoi suadenti incisi coltraniani (una citazione in apertura e chiusura di “My Favorite Things”). Segue il medley “Tonada d’Esterrossar/La Fruita Mes Primerenca”, che assomma due canti di lavoro maiorchini, rispettivamente di raccoglitrici di olive e di mandorle: maestria e calore nelle sequenze chitarristiche. Con “ Bre Sarika” si affaccia ancora il mondo sefardita, è la rilettura secondo i “tempi” di Elva Lutza, di un canto diffuso presso le comunità ebraiche, da Sarajevo fino a Istanbul.  Si vola ancora alto con “Drume”, suite di tre ninna-nanne cucite insieme, a toccare Catalogna, Cuba e la Sardegna (“El Noi de la Mare”, “Drume Negrita” e Su Pizineddu”). L’asciuttezza di canto e chitarra è tutta per il classico di Luis Llach, basato sulla poesia di Pere Quart “Corrandes d’Exili”. Si giunge al secondo omaggio alla canzone d’autore italiana, con due brani dell’indimenticato Stefano Rosso. Prima  c’è “Gira el mòn i gira”, inusitata versione catalana di “Girotondo”, poi “Pregarìa” (registrata dal vivo al Vecchio Mulino di Sassari) su cui si innesta un brano liturgico sardo: la presenza dei fiati accentua la solennità; entrambe le canzoni sono state adattate dal letterato catalano Joan Casas. Di nuovo una bella digressione latinoamericana con il merengue venezuelano “Acidito”. Ecco, poi, “Lune”, scritta a quattro mani da Carlo Muratori e da Riccardo Tesi (che infiora ancora con il suo mantice), storia ambientata in Palestina: uno dei capolavori della musica italiana. Invece, “In su Mare” è una canzone alla rovescia di matrice sefardita, rivisitata da Casu, con il canto, maschile e femminile, che si alternano. Si finisce con “La Violetera” di José Padilla, un’habanera, popolarizzata dalla diva spagnola Raquel Meyers.  L’Elva Lutza è di nuovo in fiore: uno dei grandi dischi folk del 2018.


Ciro De Rosa

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