Nativo di Daby, un piccolo centro nella regione di Timbuctu, Mali settentrionale, Samba Touré (classe 1968) per stile chitarristico è accreditato come il più vicino al sound di quel gigante che è stato Ali Farka Touré (nessuna parentela), di cui è stato un protegé.
“Wande” è il suo quinto lavoro discografico, il terzo pubblicato dalla Glitterbeat, che arriva dopo “Albala” (“Pericolo”), il disco che rifletteva lo stato d’animo di chi doveva confrontarsi con lo stato di guerra portato dall’assalto delle milizie islamiste wahabite in aree le cui popolazioni hanno avuto da sempre un modo pragmatico di praticare la fede, e dove la convivenza e la tolleranza tra culture è stata la norma, offensiva cui era seguito in risposta l’intervento militare francese (l’operazione “Serval”). In “Albala” Touré suonava con grande incisività, aprendosi ad incontri internazionali (Hugo Race), ma restando saldamente all’interno delle costruzioni pentatoniche centrate su chitarra, liuto ngoni, percussioni e sokou (il violino monocorde dal colore timbrico femminile).
Invece, i nove brani di “Wande” (che in lingua songhai significa “La beneamata”, un riferimento a sua moglie), registrati a Bamako in un paio settimane e – come per i due dischi precedenti – prodotti da Philippe Sanmiguel, rivelano la volontà di proporre un suono per così dire più tradizionale, in prevalenza acustico, meno scuro di quanto si ascoltava nei precedenti dischi, e perfino più rilassato, una ricerca di naturalezza che è anche il riflesso del mutato scenario nella regione, dove pur restando la zona molto instabile e insicura, la forza degli jihadisti sembra essersi infiacchita dopo la riconquista condotta dai francesi e dall’esercito maliano e da una coalizione di stati africani. Del profilo sonoro del disco, parla lo stesso Touré: «Tutti i primi take sono stati mantenuti, non ho registrato nuovamente alcuna linea di chitarra, le prime registrazioni sono quelle che si possono ascoltare nell’album. Ci sono meno sovra-incisioni rispetto agli album precedenti, non abbiamo provato a lucidare o rendere tutto perfetto, dà una sensazione più naturale».
Wande è un bel disco: non definitelo ‘desert blues’ o ‘afro-rock’, avverte sempre Touré nelle note di presentazione sul sito web, per sgombrare il campo dal vizioso esotismo e dalla volontà di etnicizzare: armi ideologiche semplificatorie sempre a disposizione dell’Occidente quando si parla di musica che proviene dall’Africa. L’incedere sonoro è incisivo ma più luminoso, c’è tutto il tratto “blues”, non sono scomparse del tutto le atmosfere scure, è evidente, tuttavia, una più pronunciata danzabilità, nonché la perfetta combinazione timbrica, con strumenti elettrici (chitarra e basso) che lasciano maggiore spazio a quelli acustici: il violino sokou e il tama (il tamburo parlante), soprattutto, ma senza privarsi della presenza del calabash e del ngoni.
L’iterativa “Yo Pouhala”, cantata in fulani, è la bell’apertura: un commento al deficit costruttivo del parlato di molte persone, chiarificato anche dal titolo inglese: “Blah Blah Blah!”; sulla stessa lunghezza d’onda “blues” si pone “Hawa”, che è in lingua songhai, come la maggioranza dei brani del disco. Si vira verso un rock-blues à la Stones in “Yerfara” (“Siamo stanchi”): qui l’accusa è ai maliani che si lamentano dei piccoli problemi personali, quando ce ne sono altri ben più gravi, che riguardano tutta la popolazione. La chitarra elettrica si impone anche in “Goy Boyro” (di cui esiste anche il video clip), dove si avvertono echi di BB King e si invitano i giovani a restare nel Paese per favorirne lo sviluppo, mentre il ritmo rallenta e si fa più intimo con il violino monocorde ad ergersi da protagonista nella title track, dedicata alla moglie, continua fonte di ispirazione e motivazione per Samba. Seguono “Irganda”, quasi psichedelica, in cui si chiede il rispetto per la terra degli antenati songhoi, e “Hayame”, invito a liberarsi di gelosia, debolezza e intolleranza. Addirittura segnata da sfumature acide “Mana Yero Koy”, prima di far ritorno più direttamente nel mondo musicale maliano con il suggestivo “Tribute to Zoumana Tereta”, omaggio al prestigioso suonatore del violino sokou, in cui il parlato di Touré, in lingua bamana, si appoggia alla limpidezza della chitarra e al suono campionato del maestro di Ségou scomparso poco tempo fa.
Ciro De Rosa
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