“Cantores”, i canti polivocali di tradizione orale in Sardegna (parte seconda)
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Orosei, Settimana Santa 1987 (Foto di Tonino Loddo)
Come ricercatori, operiamo per valorizzare la memoria storica delle singole comunità, legata a un articolato patrimonio di conoscenze trasmesse oralmente dai predecessori, la cui ricchezza, nel caso dei canti religiosi sardi, garantisce tratti di unione tra l’Isola e i luoghi nei quali storicamente si è affermato il Cristianesimo. Come “glocalisti”, pensiamo che tali canti possano divenire un appropriato strumento di confronto musicale interreligioso, nel rispetto delle specificità riferite alle singole comunità, nelle quali sarebbe importante che i cittadini si sentissero uniti nel promuovere la propria identità, agendo coralmente a favore della diffusione della cultura universale.
Spunti per un approfondimento tecnico-musicale
Entrando nel merito di aspetti tecnici, proseguiamo il contributo riferito ai canti e agli esecutori del repertorio religioso cattolico di tradizione orale. Le voci dei “cantores” rappresentano, rispettivamente, la tonica, la quinta, l’ottava e la decima di un “accordo maggiore”. Tali voci sono configurabili come appartenenti agli “armonici” di un suono base, come riscontrabile nelle leggi fisico-acustiche, sulle quali poggiano differenti modelli di polifonia popolare che alcuni studiosi sono soliti comprendere nelle forme del cosiddetto “canto armonico”. È possibile (ma non semplice da dimostrare) che l’affermazione dei “quartetti” (“su coru”) tipici della tradizione religiosa polivocale sarda sia da mettere in relazione allo sviluppo della polifonia in Occidente e alla genesi di un sistema teorico riferito a un antico concetto di perfezione numerica, ottenibile con la somma dei primi quattro numeri della decade (1+2+3+4=10). Secondo tale possibilità, il canto polivocale in Occidente potrebbe essere stato originariamente concepito per esprimere simbolicamente la “perfezione della vita”(“harmonia mundi”), nelle sue numerose diversificazioni profane o religiose, distinte localmente da una specifica connotazione vocale. Tecnicamente, i canti polivocali sardi potrebbero essere stati composti avendo come riferimento un “tenor”, cioè una melodia (o un inciso melodico) già conosciuta (tecnica tipo “organum”) oppure composta ex novo (tecnica tipo “conductus”).
Castelsardo, Settimana Santa 1992 (Archivio Renato Morelli)
Paolo Emilio Carapezza (1988) ha ipotizzato che, in Sicilia e Sardegna, i canti polivocali del sostrato folclorico siano da mettere in relazione con i “moduli armonico melodici del falso bordone”. La tecnica del cosiddetto “fauxbourdon” a più voci è impiegata in Valle d’Aosta, come ben documentato da Emanuela Lagnier. Rispetto alla complessità tecnica e armonica dei canti religiosi polivocali sardi, si osserva che, in generale, nella tradizione orale spesso si fa uso di forme vocali semplificate e della omoritmia, ricorrendo a testi poetici e a modelli melodico-armonici facilmente assimilabili, di preferenza ripetuti uguali o leggermente modificati ad ogni verso o distico. Modelli eseguibili anche da esecutori abituati a cantare “a orecchio” utili, innanzitutto, per aiutare il processo di memorizzazione necessario per acquisire e far propri i lunghi testi delle preghiere in sardo e di quelle in lingua latina. In mancanza di dati probanti, le ipotesi sono varie e l’argomento compositivo, se affrontato in termini tecnici, non è facilmente sintetizzabile. Per un approfondimento (della “grammatica” musicale dei canti in oggetto), preferiamo rimandare a quanto abbiamo scritto nel saggio “Humanitas musicale sarda” (con presentazione di Roberto Leydi).
Una “schola” del popolo
Musicalmente, le confraternite si configurano come un tipo particolare di “schola”, nelle quali i “cantores” vengono selezionati tenendo conto delle qualità vocali, delle capacità di memorizzazione e di messa in pratica di tutte quelle regole esecutive apprese empiricamente con l’esperienza. I “cantores” non sono musicisti professionisti, ma esecutori popolari (tra loro abbiamo conosciuto diversi laureati) che hanno sviluppato, attraverso la pratica vocale, un buon orecchio musicale. Essi usano il canto come mezzo di preghiera collettiva, ma anche per divertirsi e stare in compagnia, all’occasione esibendosi in concerti. Le ricerche hanno messo in evidenza che entrare a far parte del coro della confraternita non era facile, e in alcuni paesi poteva comportare l’attesa di diversi decenni, durante i quali il giovane aspirante doveva comunque pazientemente apprendere, ascoltando
Seneghe (Foto di Paolo Mercurio)
e osservando i più anziani ed esperti “cantores”, prima di cogliere l’occasione opportuna per essere ammesso nel gruppo vocale. Tuttavia non vi era una regola fissa per tutti i paesi, di conseguenza ogni comunità sarda deve essere studiata tenendo conto delle precipue convenzioni locali. A Castelsardo, ad esempio, sono attivi diversi “cantores” che, ai fini delle esecuzioni pubbliche festive, annualmente, vengono selezionati dal priore della confraternita, suscitando talvolta risentimenti personali tra i gruppi o tra i singoli cantori.
Dalla comunità ai palchi e al multimedia
A partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, i gruppi dei “cantores” hanno iniziato a esibirsi in concerti pubblici anche fuori dall’Isola. Sebbene alcuni di loro abbiano avuto il privilegio di essere stati registrati da influenti case discografiche, nessun gruppo ha intrapreso la strada del professionismo o del semiprofessionismo. Nei concerti, talvolta, i “cantores” hanno preferito non indossare la veste dell’Oratorio di appartenenza, forse anche per evitare di confondere una seria testimonianza di fede, con del gratuito esotismo folclorico-musicale. È questo un argomento spinoso che riguarda, da un lato, le specifiche usanze locali e, dall’altro, il delicato rapporto tra i singoli cantori e i parroci. Ciò premesso, riteniamo che non sia l’abito civile o quello confraternale a caratterizzare lo stile musicale dei “cantores”, bensì i loro canti e il loro messaggio sonoro stilisticamente ben qualificato. Di seguito, qualche breve nota storico-sociale potrà aiutare i lettori a inquadrare le questioni relative alla diffusione dei canti religiosi di tradizione orale nell’epoca della multimedialità. Con il Concilio Vaticano II, la liturgia in latino fu sostituita da quella in lingua italiana, pertanto anche il repertorio dei canti venne in buona parte rivisto e modificato a discapito dei canti in lingua sarda e di quelli in lingua latina. È opportuno evidenziare che i cambiamenti istituzionalizzati dal Concilio, sotto l’aspetto musicale e vocale, ebbero inizio in molti paesi dell’Isola, almeno a partire dagli anni Trenta. Il numero dei gruppi polivocali che possono vantare una certa continuità nella esecuzione del loro repertorio si è ormai ridotto ad una cerchia limitata di esecutori, concentrati in pochi paesi sardi.
Cantores, Cuglieri
Orosei è uno di questi. In diversi paesi, però, vi è stata una vera e propria riscoperta dei canti locali. Per tutti, citiamo il caso di Bortigali, nel quale i canti erano stati quasi completamente abbandonati, fino alla loro “renaissance” avvenuta a seguito di una campagna di rilevamento effettuata dal sassofonista Gavino Murgia che, negli anni Novanta, collaborava con Pietro Sassu. In Sardegna, permane vivace la diatriba tra i “conservatori” della tradizione (che vorrebbero vedere ripristinati e integrati nella liturgia, anche solo parzialmente, gli antichi ed espressivi canti in sardo ed in latino) e i “modernisti” (che guardano con favore al cambiamento del repertorio vocale liturgico e confraternale, perché considerato più confacente all’attuale situazione). A nostro avviso, la sopravvivenza dei canti tradizionali polivocali, oggi, non è più messa in seria discussione come negli anni Sessanta-Ottanta e, da alcuni anni, stanno iniziando a progredire gli studi sulle singole comunità. Trattandosi di canti religiosi, sarà determinante l’attenzione che il clero e la società sarda, in generale, vorranno attribuire al corpus dei canti, sollecitando o confermando opportune disposizioni per la loro salvaguardia, promovendo (ove necessario) un’efficace azione di rinnovamento e di rigenerazione all’interno della liturgia e dei riti religiosi nel rispetto della tradizione. Piuttosto discussa è anche la realtà degli Oratori, divenuta in alcune aree critica. È impensabile supporre che i canti tradizionali possano riacquistare forza e prestigio puntando solo sulla buona volontà dei “cantores” e degli associati più anziani, pur tenendo conto dell’esistenza di esecutori appassionati, che - con serietà - operano e si allenano esternamente alle strutture coordinate dalla Chiesa o gravitano attorno ad esse solo in alcuni periodi dell’anno. In base alla nostra esperienza di ricercatori ci sentiamo di riaffermare che finché ai canti della tradizione orale (preghiere vocali e corali) verrà data la possibilità di sopravvivere, cercando la rispondenza rituale nella vita della collettività, pur con i segni dell’antichità, essi riusciranno a conservare quella carica emotiva e spirituale che, per secoli, ha contraddistinto la preghiera delle comunità sarde.
Cuncordu de Orosei (Foto di Alessandro Addis)
Viceversa, come è avvenuto nel corso della storia per altre forme musicali, i canti rischieranno di cadere nell’oblio o al più di essere modernamente intonati sopra un palco (denaturalizzati e impoveriti della carica espressiva conferitagli dalla preghiera collettiva) da esecutori che si presentano ad un pubblico generico, che niente ha da condividere con gli originari spettatori per i quali i canti, in origine, furono composti.
Guardare al passato per meglio analizzare il presente
Per meglio comprendere il senso delle precedenti considerazioni, può essere utile volgere brevemente lo sguardo al passato, quando la sopravvivenza dei canti era affidata esclusivamente alla memoria dei “cantores”, che potevano apprendere il cospicuo repertorio attraverso un esercizio (più o meno costante), svolto soprattutto in concomitanza di precisi eventi rituali, tra cui la Settimana Santa. I “cantores” nelle società a tradizione orale erano i custodi preposti a salvaguardare e ad eseguire un repertorio musicale codificato, non scritto, e pertanto aperto al “libero” intervento dei suoi esecutori nel processo dinamico della ripetizione interpretativa. I canti di tradizione orale, infatti, sono sempre il risultato di processi mnestici i quali, da parte degli esecutori, possono prevedere numerose interpolazioni che, se rapportate a lunghi periodi storici, possono portare a notevoli stravolgimenti del documento originale. Nelle comunità sarde esisteva una rigorosa suddivisione dei compiti sociali anche nell’espressione tipicamente musicale. Le donne erano specializzate nei canti della veglia e del sonno (anninnia), del dolore (atitu), e in alcuni canti religiosi (orassiones, Rosario cantato…). I maschi, invece, erano specialisti dei canti “a ballo”, “a poesia”, ma anche di quelli polivocali religiosi. In comune, uomini e donne avevano alcuni tipi di canto, anche se spesso eseguiti con forme vocali differenti, quali i canti di lavoro, i canti d’amore (“mutos”) e alcuni canti religiosi come, ad esempio, i “gotzos”. A partire dagli anni Trenta-Quaranta del ventesimo secolo, mutando le condizioni sociali ed economiche delle singole comunità, si modificò anche il ruolo dei “cantores”, i quali progressivamente furono affiancati o sostituiti dalle voci femminili, che si andavano specializzando in un nuovo repertorio di canti da eseguire in lingua italiana. Così, per alcuni decenni, nei riti e nelle funzioni religiose convissero i canti maschili in latino o in sardo con quelli italiani, intonati in prevalenza dalle donne accompagnate dall’organo o dall’harmonium. Come è stato accennato, con il Concilio Vaticano II la Chiesa, pur riconoscendo il valore dei canti della tradizione e della lingua latina, stabilì in modo definitivo l’affermazione del rito liturgico nella lingua nazionale, e ciò portò a una consistente diminuzione dei “cantores”, soprattutto di quelli attivi all’interno della celebrazione della messa cantata (“cantores de cresia”). Per questa ragione, la stragrande maggioranza dei “cantores” oggi attivi appartiene alle confraternite (“cantores de sas corfarias”) e non alla parrocchia, all’interno della quale spesso operano vere e proprie corali miste che cantano in lingua sarda o italiana, intonando armonizzazioni secondo lo stile dei canti d’ispirazione popolare.
Cantores Santu Lussurgiu
In alcuni gruppi maschili tradizionali, invece, si canta raddoppiando le singole voci. Come si è detto in precedenza i “cantores”, oggi, sono operativi soprattutto in concomitanza delle festività pasquali e di quelle connesse ai singoli Oratori di appartenenza. In passato, invece, essi partecipavano alla ritualità religiosa del proprio paese durante tutto l’anno liturgico, ricoprendo all’interno della propria comunità un ruolo sociale primario. Fin qui abbiamo considerato i canti facendo riferimento alla cultura “locale”. Grazie (soprattutto) alle nuove tecnologie della comunicazione, le comunità non sono più “isolate” e i canti del repertorio tradizionale hanno progressivamente acquisito interesse per il mondo del multimedia, comprendente radio private, televisioni, giornali, editoria, cinema, social web. A partire dagli anni Ottanta, i “cantores” hanno iniziato a registrare in modo sistematico i propri canti a più voci su supporto magnetico e digitale. Per lo sviluppo del canto tradizionale in Sardegna, negli ultimi decenni, sono state spese somme considerevoli, sulle quali sarebbe interessante promuovere studi economici, per meglio specificare cifre e dati sui quali potrebbero essere sviluppate osservazioni sociali integrate, a complemento di quanto già noto agli studiosi. Di recente, abbiamo potuto constatare come il periodo della “Settimana Santa” venga folcloristicamente reclamizzata anche per fini turistici. In numerose comunità sarde, soprattutto durante il triduo pasquale, si è ormai consolidato un tripudio massmediatico, con operatori televisivi locali e spettatori (di ogni età e provenienza) intenti ad armeggiare ovunque cellulari, registratori, telecamere e macchine fotografiche. I “cantores” sono presi d’assalto e, a volte, riescono a muoversi a fatica nei percorsi processionali. I concerti, le conferenze e le manifestazioni interculturali non sono più eventi rari. I “cantores” vengono spesso invitati in rassegne musicali internazionali. Spiccata è, ormai, l’attenzione per questo tipo di vocalità da parte di centri di ricerca, accademie e università (nazionali ed estere), dove sempre più attuale è il tema della comparazione e del confronto tra “canti popolari-musica colta”, una separazione che riteniamo sarebbe utile superare, studiando e analizzando la musica olisticamente e “glocalmente”. Diversi arrangiatori e compositori hanno preso spunto dai canti religiosi tradizionali sardi per rielaborazioni armoniche, per comprendere le quali bisognerebbe
Cantores di Castelsardo e Seneghe (Foto di Paolo Mercurio)
addentrarsi nel vasto campo della cosiddetta area dei canti d’ispirazione popolare che, in Sardegna, ha riscontrato ampio successo a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. A tal proposito, desideriamo ricordare due Maestri nuoresi recentemente scomparsi: Banneddu Ruju e Gian Paolo Mele. I canti religiosi tradizionali, poi, hanno acquisito (parziale) interesse in ambito didattico, sia con lezioni tenute presso alcune scuole dell’obbligo sia in area pratico-esecutiva, con stage dedicati all’apprendimento del canto a più voci. Naturalmente, tali canti rivestono specifico interesse per l’etnomusicologia, nel cui ambito la polivocalità religiosa viene studiata globalmente, essendo diffusa in numerose aree della Penisola italiana e in diversi Paesi del Mediterraneo (come, ad esempio, Spagna e Francia, in particolare Corsica). Sin dagli anni Settanta e Ottanta, in Italia, sono state svolte ricerche di spessore come, ad esempio, in Val d’Ossola (Carlo Oltolina, Davide Gramolini), in Liguria (Edward Neil, Mauro Balma), in Trentino (Renato Morelli), in Veneto e nel Friuli (Roberto Starec), nel Canton Ticino (Arnold Geering, Pietro Bianchi), nel Lazio (Luigi Colacicchi, Giuseppina Colicci), nel Centro Italia (Piero Arcangeli, Giancarlo Palombini), in Campania (Sandro Biagiola, Roberto De Simone, Annabella Rossi, Pierluigi Gallo), in Sicilia (Elsa Guggino, Giuliana Fugazzotto, Ignazio Macchiarella, Mario Sarica), in Puglia (Nicoletta Cirillo, Angela Laterza), in Calabria (Antonello Ricci, Ettore Castagna, Serena Facci). Molto, in pochi decenni, è cambiato. Lo sviluppo della tecnologia, la spinta globalizzatrice, la spettacolarizzazione degli eventi festivi e i cambiamenti nella vita sociale non hanno lasciato indenne la religiosità popolare. Nel corso degli anni, sarà compito degli studiosi osservare lo sviluppo sincronico della musica dei “cantores”, tenendo conto del contesto comunitario e regionale.
Valorizzare le tessere del mosaico culturale universale
Da quanto fin qui sinteticamente scritto, appare evidente l’articolazione delle tematiche afferenti ai canti religiosi di tradizione orale, da taluni denominati “sacro-popolari”.
Cantore Cronta (Foto Paolo Mercurio)
Consapevoli della complessità degli argomenti da trattare e di quanto le descrizioni musicali possano spiegare solo parzialmente l’esperienza sonora nel vivo degli avvenimenti, nel nostro excursus, abbiamo voluto delineare un quadro generale che tenesse conto della diacronia e della sincronia dei canti tradizionali sardi, inseriti in un adeguato contesto storico-rituale. Tali canti si sono sviluppati nel solco della religione cattolica e appartengono al patrimonio culturale e musicale delle singole comunità ma, in un’ottica di sinergie internazionali, siamo propensi a considerarli beni dell’intera umanità. Più volte abbiamo rilevato come tutta l’area della polifonia sarda - launeddas, canto “a tenore”, canti a più voci di tradizione orale (non solo quelli dei “cantores”) - sia intrisa di antico “rythmós”, universalità spirituale e humanitas, essendo stata a lungo fondamento e punto di riferimento musicale per le differenti comunità sarde. Come ricercatori, riteniamo fondamentale custodire la memoria storica popolare. Seguendo tale orientamento, proseguiremo nello studio integrato dei canti religiosi di tradizione orale sardi, ricercando tratti di unione con la cultura musicale dei luoghi nei quali storicamente si è affermato il Cristianesimo. Tali canti possono divenire un prezioso mezzo a favore del dialogo e del confronto interreligioso, nel rispetto delle specificità identitarie riferite alle singole realtà musicali, che consideriamo importanti “tessere del mosaico culturale universale”, da valorizzare secondo una “glocale” e corale promozione del sapere e della conoscenza.