Il disco scelto per voi questa settimana si colloca al côtè opposto del progetto Inna de Yard presentato nello scorso numero, incentrato com’è, quest’ultimo, solo su voce, chitarra e percussioni nyabinghi, rigorosamente registrate in acustico. “Dread Times” è infatti l’album della lunga distanza del gruppo londinese, Dreadzone, noto per l’abilità (e il gusto) di strapazzare nei meandri dell’elettronica inglese ogni influenza che partendo dal reggae/dub, lambisce i confini del drum and bass e i breakbeat dell’UK garage fino alle incursioni ardite in zone a cavallo tra urban music (urban anche inteso sociologicamente come “metropolitano”) e ambientazioni chill-out. Si diceva della lunga distanza perché “Dread Times” arriva dopo quattro anni dal precedente, “Escapades” (2013), il disco designato a celebrare il ventennale di carriera del gruppo. Già, e qui, una piccola presentazione della band, per chi non é avvezzo a un certo tipo di sonorità, é d’obbligo. Nati nel 1993 da una costola dei Big Audio Dynamite – a sua volta gruppo spin-off dei Clash, fondato dall’(ex) chitarrista e cantante (di questi ultimi) Mick Jones assieme al fido Don Letts (che dei Clash è stato amico, consigliere, e compagno di mille merende, tutte documentate nel libro, “Punk & Dread. Quando la cultura giamaicana incontrò il punk”, Shake, 2015, scritto a quattro mani con David Nobakht) –, presero il nome Dreadzone su suggerimento di Letts: il gruppo nacque dall’incontro tra colui che al tempo era il batterista dei Big Audio Dynamite, Greg “Dread” Roberts, con Tim Bran, ingegnere del suono e collaboratore di Julian Cope. Negli anni i Dreadzone si aggiudicarono la stima di John Peel che li fece conoscere al grande pubblico radiofonico della BBC britannica. Oggi i Dreadzone sono una vera e propria istituzione della fusion elettronica inglese.
“Dread Times”, registrato negli studi di Mick Jones, è il loro ottavo album pubblicato sulla loro etichetta Dubwiser (che tradotto letteralmente significa “i saggi del dub”), che assieme al loro nome, Dreadzone, serve a collocarli in un terreno incontestabilmente e incontrastabilmente combattente, antagonista, anti-convezionale. Ciò sia a voler considerare l’alto valore simbolico del termine “dread” nella cultura Rastafari (che si traduce nella pratica di farsi crescere le spettacolari e vistose capigliature intrecciate di dreadlocks) inteso come estremo rifiuto del sistema di Babylon/capitalismo/Occidente/dominazione coloniale/oppressione razziale), inestricabilmente correlato a ciò che W.E.B. Du Bois ha teorizzato come doppia-coscienza (degli schiavi trasportati e trapiantati in contesti diversi da quelli luogo d’origine, l’Africa), sia l’etimologia del termine “dubwiser” (secondo una consuetudine in voga nell’ambiente reggae il dubwise é un’appendice “drum” and “bass” di un brano che solo i musicisti più autorevoli potevano richiedere, che so’ del calibro di Sly And Robbie, durante le esibizioni live: non è questa la sede adatta per discettare sull’evoluzione di pratiche, come il dub, e consuetudini, come il dubwise, dovuta allo sviluppo tecnologico, che ha dato l’impulso a una gran fetta della musica elettronica moderna). Se poi ci aggiungiamo che a collaborare alla stesura delle liriche è, manco a dirlo, l’ultra-venerato Letts, il cui tocco ha puntualmente e parallelamente aggiunto o tolto qualcosa alla materia cui si è di volta in volta dedicato (dj, regista, scrittore), i conti quadrano. Tornando a “Dread Times”, è un disco che suona come la logica evoluzione di un culto sedimentato nei bassi roboanti e panciuti della sound system culture, cresciuta e amplificatasi nel fenomeno della club culture britannica orientata verso i bass groove massicci e tuonanti (chi li sente i puristi del dub analogico!). Va detto però: i Dreadzone percorrono sentieri già battuti, ma nonostante siano alle prese con linguaggi musicali codificati (dance, dancehall, breakbeat, ragga, house, chill-out e dub) lo fanno con un’attitudine capace di suonare “sperimentale” per i numerosi colpi di coda (si ascoltino in proposito “Music Army”, “Black Deus” o la conclusiva, delicata “After The Storm”), per il dinamismo e una certa calma tensione che caratterizza tutte le tracce, dalle intuizioni spesso poste lì, all’interno di uno stesso brano, (“Music Army” é un esempio anche in questo e “Black Deus” ha lo stesso mordente di un brano in stile punky reggae dei Clash) a fare la differenza. Si fanno apprezzare anche per i testi, che cantano di ribellione, oppressione, ingiustizia, sopravvivenza, solidarietà, ispirazione, di ‘radici’ (“Rootsman”), in pieno stile roots, e che decantano l’importanza di figure rappresentative dell’orgoglio nero come Martin Luther King citato nella pluri-menzionata “Black Deus” (Sappiamo attraverso esperienze dolorose che la liberà non è mai volontariamente concessa dall’oppressore ma che deve essere richiesta dagli oppressi). Temi e circostanze che sfortunatamente non passano mai di moda. Bello anche il singolo di lancio, “Mountain”, con gli echi di dub scomposti e una melodica fantasticamente estroversa. Uno di quei dischi che fa meditare, ballando.
Grazia Rita Di Florio
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Reggae e Dub