
Partiamo da lontano, come hai mosso i tuoi primi passi nel mondo della musica?
Ero arrivato a Firenze dalle montagne della Basilicata per studiare architettura e frequentavo la Galleria Numero, una galleria d’arte a livello internazionale con sedi anche a Milano, Venezia e Roma. E’ stato lì che ho incontrato persone che facevano avanguardia, musica e arte sperimentale.

Insomma hai vissuto in un periodo di grandissimo fermento culturale a Firenze…
Ho vissuto a contatto con un tipo di cultura fuori dall’ordinario, ad un livello molto alto e ho avuto modo di fare una serie di esperienze che sarebbe impossibile da enumerare tutte. Per esempio, in anticipo sul rap fu la sperimentazione sulla poesia visiva di artisti come Pignotti, Miccini, Ori, e tutta una serie di personaggi diventati importanti e che hanno fatto un po’ la storia dell’arte moderna. Sono capitati poi a Firenze anche gli artisti del Living Theatre che fecero una rappresentazione dentro la mensa di Santa Apollonia. Eravamo in cinque ad assistere alla performance e loro erano trenta. Living Theatre hanno inventato la performance, il free jazz. Quella sera mi accorsi che non avevano nemmeno da dormire, e li ospitai nel mio studio a Via Degli Artisti al numero 6 che era molto grande. Sette o otto di loro a vennero a dormire là e si arrangiarono per terra, o sui cuscini. Tra loro c’era uno degli inventori del free jazz, uno dei primi a suonarlo con coscienza, lui parlava del rivolto musicale, ovvero quel particolare procedimento che permetteva di creare delle loghie, delle sequenze musicali completamente nuove con gli accordi rivoltati.
In questo, anche tu sei stato molto curioso nell’avvicinarti a certe esperienze …

In quel periodo hai frequentato anche la scena artistica di Milano, e il Nebbia Club…
Sul giornale vedevo dove si faceva musica e nel pomeriggio mi presentavo nei nightclub, sapendo che a quell’ora i proprietari faceva le pulizie nel locale. Furbescamente avevo capito che quella era l’ora adatta per proporsi, andavo lì e chiedevo se potevo suonare, e avendo quei dieci minuti di tempo mi guardavano incuriositi perché mi vestivo molto strampalato, fuori dal normale.

Veniamo all’incontro con Fernanda Pivano. Fu lei a presentarti a Giangiacomo Feltrinelli che pubblicò la tua prima raccolta di poesie…
Era il 1966 e fu al Nebbia Club che Fernanda Pivano mi ascolto e mi chiese subito di pubblicare le cose che cantavo. Il giorno successivo venne anche Giangiacomo Feltrinelli che ascoltò le mie poesie e mi propose di farle uscire per la sua casa editrice, e nello stesso anno uscì la mia prima raccolta dal titolo “I denti cariati e la patria”. Io, infatti, nascevo come poeta non come cantante. Anzi ti dirò di più, non lo sono assolutamente. All’epoca si facevano dei reading dove tanti ragazzi recitavano poesie, perché non c’è italiano che non abbia una poesia nel cassetto. Erano sullo stile di quelli che facevano Allen Ginsberg e i poeti della Beat Generation, ma questo portava il pubblico ad annoiarsi, oltretutto erano piene di parolacce come cazzo, vaffanculo, rottinculo, e bestemmie continue. Ovviamente i proprietari dei locali si arrabbiavano molto e il pubblico ancora di più e diventava un casino generale. Pensai quindi di accompagnare le mie poesie con un banjo non accordato, e quindi ngre, ngre, ngre declamavo: “Baffi baffi di donna psicologicamente causa di esaurimenti nervosi, baffi baffi di donna delicatamente biondi ossigenati, strapazzati da trapani meccanici, baffi baffi di donna”, dreng dreng dreng, drung drung dung, din din din, “superormonicamente degenerati piani, impianti di donna, impianti, pianti di donna, baffi baffi di donna… ect”. Un’altra poesia era questa: “Anonimo cittadino del ventesimo secolo, sei Coca Cola, guarda il sole che nasce e grattati la pancia, anonimo cittadino del ventesimo secolo”, ngleng ngleng nglung nglung, “anche se hai il televisore, l’asciugacapelli, il tritacarne, la macchina, la lavatrice, l’elicottero, la Jaguar, una corazzata, un aereo, non sei che un numero.

Nel 1968 hai pubblicato il tuo primo 33 giri “Ho la criniera da leone (perciò attenzione)” nel quale eri accompagnato dagli Orchestrali della Scala di Milano…
Sempre in quel periodo qualcuno mi propose di fare un disco con Nanni Ricordi. Andai da lui e cantai “Il Cantico delle Creature” di San Francesco d’Assisi, inventando la musica e aggiungendovi alcuni versi tra cui: “che domani sarà distrutta”. Era l’epoca del pacifismo, e il contrasto tra la meraviglia del creato divino e l’incombere della guerra nucleare era un tema forte. C’era una paranoia fortissima perché c’era la Guerra Fredda con la crisi dei missili a Cuba. Vivevamo tutti quell’angoscia. Nanni ricordi rimase molto colpito, tant’è che mi chiese di ricantarla. La eseguii di nuovo ma in modo del tutto differente, e subito mi propose di fare un 33 giri. Se l’avessi rifatta uguale, è probabile che non avrei avuto quell’opportunità. Da come la cantai la seconda volta, lui aveva capito che avevo la stoffa. Come ho già detto, io nasco come poeta e il suono come in Joyce accompagna la parola nella mia arte.
La Ricordi mi chiese se volevo andare a Sanremo perché avevo fatto il 33 giri. All’epoca sia Lucio Battisti sia Edoardo Bennato avevano pubblicato dei 45 giri e dunque il prescelto per il Festival di Sanremo ero io. Io però non volevo fare il cantante e preferii l’esperienza con Dario Fo che, partendo dalle radici della musica del popolo, quella che non si canta nei luoghi ufficiali, stava mettendo su uno spettacolo dove valorizzare e rendere contemporanea questa musica. C’era il Coro di Aggius, Caterina Bueno, Rosa Balistreri e io cantavo “Avola” che avevo composto con Dario Fo ed Enzo Del Re. Era ispirata ai fatti avvenuti in questo paese della Sicilia negli anni sessanta: l'occupazione delle terre da parte dei braccianti. Entrando in contatto con la tradizione, rispolverai tutto quello che era la mia cultura del mondo contadino da cui provenivo. Chiusa l’esperienza con Fo, tornai a Firenze e completai il percorso di studi laureandomi in architettura con 110 e lode. Insegnai un paio di anni arte dei giardini a Firenze, ma nello stesso tempo facevo delle performance in varie parti d’Italia.
Qualche anno più tardi hai dato vita ai Tarantolati di Tricarico con i quali hai reinventato e riattualizzato la tradizione musicale lucana ed inciso tre album per la Fonit Cetra…
Ero stato in Egitto e Creta e lì avevo scoperto che c’era un’idea di suono che non era popolare, ma piuttosto qualcosa di vivo tra la gente.

Nel 1978 hai dato alle stampe il progetto “La Tarantola va in Brasile”…
Francesco De Gregori voleva fare un tour con me, quello che poi fece con Lucio Dalla perché io dissi di no. A me interessava di più questo paesaggio di suoni delle radici, così decisi di andare in Brasile, ma prima di partire Giancarlo Cesaroni mi chiese di fare un altro disco.

Quando hai cominciato ad esplorare la trance…
Non cerco il contatto con la trance. Facendo un certo tipo di musica la trance è una conseguenza naturale perché si ci immette nei ritmi della natura. Devi conoscere il ritmo del cavallo, bisogna avvertire questa creatività naturale, ancestrale, primitiva, che ci tocca dentro, non perché è un oggetto del passato ma perché è un qualcosa che produce ed induce in ognuno di noi. Io con la mia musica non racconto la taranta faccio una tarantata vera, è una grande differenza. Il mio non è uno spettacolo. Le mie canzoni degli anni Settanta mettevano insieme in modo irriverente le tradizioni pseudopopolari, il mondo agro-pastorale, teatro delle lotte contadine degli anni Cinquanta, ed il suo bisogno di cambiamento per uscire dalla miseria sia fisica che psichica, esaltando in un clima euforico e sfranto di tarantolati, l’istinto e l’energia vitale che ci spinge al cambiamento. Oggi non ci sono più muli o asini mia macchine, non ci sono più le strade polverose di campagna ma c’è l’asfalto. Non ci sono più i telegrammi ma c’è il cellulare. Non c’è l’immaginazione, ma c’è internet. Oggi parti e vai intorno al mondo e a te stesso in un clima forsennato di tarantati ruotanti di modo circolare in un ritmo sempre più vorticoso e come le comete escono fuori da un’orbita per entrare in un’altra, affiorano memorie del passato e visioni del futuro. Nella mia tesi di laurea in Architettura ho enunciato il principio della materia dea interndersi come corde vibranti.

In questo senso si sono mossi anche i tuoi studi sulla sezione aurea…
La sezione aurea è un suono specialissimo che contiene in sè: rumore, suono bianco, battimenti, interferenze, terzo suono, hyperarmonici, risonanze simpatiche, suono vuoto, sitenzio controfase, il tutto è prodotto con una semplice chitarra. Questo suono è solare, aperto ad infinite combinazioni creative, espressione della divina proporzione di cui ne è la risultante. Tale suono l’ho definito la nota d’oro che come il numero d’oro è alla base del ritmo. Questa nota applicata al rotante movimento della pizzica tarantata o della tarantella ne fa qualcosa di assolutamente trascinante ed esplosivo.
Il tuo gruppo è attualmente composto da giovani e giovanissimi. Da dove è nata questa scelta?
C’è un ricambio continuo con loro che sono cresciuti con le mie musiche. Io li perfeziono, gli insegno i trucchi, l’affinamento, i segreti per poter creare questa circolarità del suono che crea quello stato di trance di cui accennavamo prima. I ragazzi che suonano con me li faccio sempre improvvisare per tirare fuori da loro il massimo dell’energia e dell’autenticità. Quello che voglio non è un repertorio ma una creazione in tempo reale.

Quanto è stato importante il contatto continuo con la tradizione musicale della tua terra?
La tradizione bisogna interiorizzarla, non bastano solo i libri. Nella mia infanzia ho conosciuto Rocco Scotellaro, il poeta che ha guidato le lotte contadine, abitava 50 metri da casa mia, ed era un grande amico di mia madre con cui era cresciuto.


Hai collaborato alla realizzazione dell’ultimo album di Vinicio Capossela. Puoi parlarci di questa esperienza?
E’ un grande poeta, lui sta facendo un operazione interessante perché vede il mondo contadino del paese, i miti che venivano sognati, e li mescola ai mariaci al tango al valzer. Prende gli originali e li restituisce con suoni nuovi come quelli Tex Mex.
Concludendo, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
A breve entrerò in studio per un disco sui suoni ancestrali, quelli presenti in natura e quelli che sono nel subliminale di ognuno di noi. Questo nuovo lavoro sarà distribuito dalla Sony in tutto il mondo.
Salvatore Esposito