Intervista con Antonio Infantino

“È un personaggio che incarna in senso letterale alcune tra le cose migliori della cultura e dello spettacolo di questi ultimi quarant’anni”, così Fernanda Pivano parlava di Antonio Infantino, sottolineando tanto la sua articolata formazione artistica, quanto il suo genio creativo. Lucano di origine, ma fiorentino di adozione, Infantino nel corso della sua carriera ha spaziato dalle arti figurative all’avanguardia musicale, dalla poesia della Beat Generation alla sperimentazione in ambito popolare, dando vita ad una delle esperienze artistiche più emblematiche della musica italiana. Nella sua musica infatti si intrecciano nel tradizioni musicali lucane e ricerche sul suono, evocazioni ancestrali e ritmi ipnotici dettati dall’utilizzo di ritmi percussivi che rimandano alla trance e agli antichi riti tribali. Lo abbiamo intervistato per ripercorrere insieme a lui la sua lunga carriera, senza dimenticare uno sguardo verso i progetti futuri.

Partiamo da lontano, come hai mosso i tuoi primi passi nel mondo della musica?
Ero arrivato a Firenze dalle montagne della Basilicata per studiare architettura e frequentavo la Galleria Numero, una galleria d’arte a livello internazionale con sedi anche a Milano, Venezia e Roma. E’ stato lì che ho incontrato persone che facevano avanguardia, musica e arte sperimentale. 
Era la metà degli anni Sessanta, tra il 1964 e il 1965. C’era Pietro Grossi, il quale stava lavorando a Pisa nello stesso laboratorio che stavano preparando per Olivetti e IBM con i primi computer, e lì scoprirono che l’elettricità aveva un suono proprio chiamato “suono bianco” e per la prima volta registrarono questo “ooooo”. La sera ci invitava a casa sua, eravamo quattro o cinque persone, e ci faceva ascoltare questi suoni prodotti dall’elettricità. Suoni puri prodotti dai campi elettromagnetici. In seguito Grossi portò questa esperienza anche al Conservatorio di Firenze dove nacque la prima scuola di musica elettronica in Italia, tra le prime al mondo. Contemporaneamente, in galleria venivano anche artisti già famosi come il grande ceramista francese Vallauris che aveva insegnato questa arte anche a Picasso ed era amico di Simone De Beauvoir, la moglie di Sartre, e tutto questo mi trasmetteva una visione del mondo che allora giovanissimo assimilavo ed incorporavo e sapevo avrebbe dato i frutti che poi ci sono stati. 

Insomma hai vissuto in un periodo di grandissimo fermento culturale a Firenze…
Ho vissuto a contatto con un tipo di cultura fuori dall’ordinario, ad un livello molto alto e ho avuto modo di fare una serie di esperienze che sarebbe impossibile da enumerare tutte. Per esempio, in anticipo sul rap fu la sperimentazione sulla poesia visiva di artisti come Pignotti, Miccini, Ori, e tutta una serie di personaggi diventati importanti e che hanno fatto un po’ la storia dell’arte moderna. Sono capitati poi a Firenze anche gli artisti del Living Theatre che fecero una rappresentazione dentro la mensa di Santa Apollonia. Eravamo in cinque ad assistere alla performance e loro erano trenta. Living Theatre hanno inventato la performance, il free jazz. Quella sera mi accorsi che non avevano nemmeno da dormire, e li ospitai nel mio studio a Via Degli Artisti al numero 6 che era molto grande. Sette o otto di loro a vennero a dormire là e si arrangiarono per terra, o sui cuscini. Tra loro c’era uno degli inventori del free jazz, uno dei primi a suonarlo con coscienza, lui parlava del rivolto musicale, ovvero quel particolare procedimento che permetteva di creare delle loghie, delle sequenze musicali completamente nuove con gli accordi rivoltati. 

In questo, anche tu sei stato molto curioso nell’avvicinarti a certe esperienze …
Attraverso rapporti di amicizia e contatti diretti con quelli che sono stati gli sperimentatori del teatro e della musica contemporanea, ho avuto modo di assorbire grandi novità per l’epoca. Sulla mia curiosità ho innestato tutti questi sementi che poi sono sfociati in altre cose. Ovviamente anche all’università ebbi modo di incontrare personaggi straordinari come Gillo Dorfles con cui sostenni il primo esame sulla comunicazioni di massa, “nuovi riti e nuovi miti”, e presi trenta e lode. Anche all’esame con Umberto Eco presi trenta e lode, e divenni anche suo amico. All’epoca facevo l’autostop per andare a Milano. Da Firenze a Milano non facevamo altro che parlare e ovviamente è una cosa diversa rispetto a quando si insegna in cattedra. Avevo la possibilità di capire la costruzione del pensiero, delle idee partendo proprio dalla persona. Questo mi ha segnato poi in tutte le esperienze successive, non guardando la formalità delle cose ma andando all’essenza stessa delle cose sia nelle persone che nel lavoro.

In quel periodo hai frequentato anche la scena artistica di Milano, e il Nebbia Club…
Sul giornale vedevo dove si faceva musica e nel pomeriggio mi presentavo nei nightclub, sapendo che a quell’ora i proprietari faceva le pulizie nel locale. Furbescamente avevo capito che quella era l’ora adatta per proporsi, andavo lì e chiedevo se potevo suonare, e avendo quei dieci minuti di tempo mi guardavano incuriositi perché mi vestivo molto strampalato, fuori dal normale. 
Così mi chiedevano di fargli sentire cosa facevo, e puntualmente la sera suonavo là. Mi accompagnavo con una chitarra scordata, perché non sapevo accordarla. Avendo esperienze di free jazz la accordavo con la voce e da quelli che erano i suoni che tiravo fuori, inventavo lì per lì qualcosa che sembrava in qualche modo già preparato. Il Nebbia Club era frequentato da artisti come Enzo Jannacci e dai grandi jazzisti, ma si faceva ogni tipo di musica. Lì ho incontrato Fernanda Pivano. 

Veniamo all’incontro con Fernanda Pivano. Fu lei a presentarti a Giangiacomo Feltrinelli che pubblicò la tua prima raccolta di poesie…
Era il 1966 e fu al Nebbia Club che Fernanda Pivano mi ascolto e mi chiese subito di pubblicare le cose che cantavo. Il giorno successivo venne anche Giangiacomo Feltrinelli che ascoltò le mie poesie e mi propose di farle uscire per la sua casa editrice, e nello stesso anno uscì la mia prima raccolta dal titolo “I denti cariati e la patria”. Io, infatti, nascevo come poeta non come cantante. Anzi ti dirò di più, non lo sono assolutamente. All’epoca si facevano dei reading dove tanti ragazzi recitavano poesie, perché non c’è italiano che non abbia una poesia nel cassetto. Erano sullo stile di quelli che facevano Allen Ginsberg e i poeti della Beat Generation, ma questo portava il pubblico ad annoiarsi, oltretutto erano piene di parolacce come cazzo, vaffanculo, rottinculo, e bestemmie continue. Ovviamente i proprietari dei locali si arrabbiavano molto e il pubblico ancora di più e diventava un casino generale. Pensai quindi di accompagnare le mie poesie con un banjo non accordato, e quindi ngre, ngre, ngre declamavo: “Baffi baffi di donna psicologicamente causa di esaurimenti nervosi, baffi baffi di donna delicatamente biondi ossigenati, strapazzati da trapani meccanici, baffi baffi di donna”, dreng dreng dreng, drung drung dung, din din din, “superormonicamente degenerati piani, impianti di donna, impianti, pianti di donna, baffi baffi di donna… ect”. Un’altra poesia era questa: “Anonimo cittadino del ventesimo secolo, sei Coca Cola, guarda il sole che nasce e grattati la pancia, anonimo cittadino del ventesimo secolo”, ngleng ngleng nglung nglung,  “anche se hai il televisore, l’asciugacapelli, il tritacarne, la macchina, la lavatrice, l’elicottero, la Jaguar, una corazzata, un aereo, non sei che un numero. 
Anonimo cittadino del ventesimo secolo rendi di pubblica opinione la tua masturbazione, lo sai meglio di me che non ami che te, lo sai meglio di me che non ami che te”. Erano cose per l’epoca non scioccanti, scioccantissime. 

Nel 1968 hai pubblicato il tuo primo 33 giri “Ho la criniera da leone (perciò attenzione)” nel quale eri accompagnato dagli Orchestrali della Scala di Milano…
Sempre in quel periodo qualcuno mi propose di fare un disco con Nanni Ricordi. Andai da lui e cantai “Il Cantico delle Creature” di San Francesco d’Assisi, inventando la musica e aggiungendovi alcuni versi tra cui: “che domani sarà distrutta”. Era l’epoca del pacifismo, e il contrasto tra la meraviglia del creato divino e l’incombere della guerra nucleare era un tema forte. C’era una paranoia fortissima perché c’era la Guerra Fredda con la crisi dei missili a Cuba. Vivevamo tutti quell’angoscia. Nanni ricordi rimase molto colpito, tant’è che mi chiese di ricantarla. La eseguii di nuovo ma in modo del tutto differente, e subito mi propose di fare un 33 giri. Se l’avessi rifatta uguale, è probabile che non avrei avuto quell’opportunità. Da come la cantai la seconda volta, lui aveva capito che avevo la stoffa. Come ho già detto, io nasco come poeta e il suono come in Joyce accompagna la parola nella mia arte. 

Poi ci fu l’incontro con Dario Fo per lo spettacolo “Ci ragiono e canto” …
La Ricordi mi chiese se volevo andare a Sanremo perché avevo fatto il 33 giri. All’epoca sia Lucio Battisti sia Edoardo Bennato avevano pubblicato dei 45 giri e dunque il prescelto per il Festival di Sanremo ero io. Io però non volevo fare il cantante e preferii l’esperienza con Dario Fo che, partendo dalle radici della musica del popolo, quella che non si canta nei luoghi ufficiali, stava mettendo su uno spettacolo dove valorizzare e rendere contemporanea questa musica. C’era il Coro di Aggius, Caterina Bueno, Rosa Balistreri e io cantavo “Avola” che avevo composto con Dario Fo ed Enzo Del Re. Era ispirata ai fatti avvenuti in questo paese della Sicilia negli anni sessanta: l'occupazione delle terre da parte dei braccianti. Entrando in contatto con la tradizione, rispolverai tutto quello che era la mia cultura del mondo contadino da cui provenivo. Chiusa l’esperienza con Fo, tornai a Firenze e completai il percorso di studi laureandomi in architettura con 110 e lode. Insegnai un paio di anni arte dei giardini a Firenze, ma nello stesso tempo facevo delle performance in varie parti d’Italia.

Qualche anno più tardi hai dato vita ai Tarantolati di Tricarico con i quali hai reinventato e riattualizzato la tradizione musicale lucana ed inciso tre album per la Fonit Cetra…
Ero stato in Egitto e Creta e lì avevo scoperto che c’era un’idea di suono che non era popolare, ma piuttosto qualcosa di vivo tra la gente. 
Pensavo che questa fosse una musica da non relegare nel popolare  perché aveva forza ed attualità. Non era un oggetto come il berretto della nonna. Nonera da museizzare. Così pensai che andava fatto la stessa cosa. Forte di questa esperienza, anziché usare la tammorra, cominciai ad usare i tamburi, creando un effetto quasi tribale. Un tamburo o la zampogna nella mia mente venivano tradotti in questo modo. Usavamo poi strumenti del paesaggio come i campanelli degli asini, l’incudine, insomma tutto ciò che produceva suono. Diventammo subito molto popolari con il primo disco omonimo, “La morte bianca” e “Follie del divino spirito santo”, usciti sull’etichetta Folkstudio di Giancarlo Cesaroni. Avevo scelto il nome di tarantolati, per evocare la disperazione dei contadini del sud di Rocco Scotellaro. Quelli che avevano fatto le rivolte per l’occupazione delle terre, erano anarchici, gente che finiva in galera e usciva con un senso della libertà molto forte che faceva paura. Quando ideai il nome Tarantolati non pensavo ad Ernesto De Martino, ma piuttosto al morso della tarantola come l’arte brut di molti pittori, come l’arte dei pazzi. E’ la pazzia che ti avvicina a Dio che di da la libertà. Il massimo di creatività per me signficava quello. Da uno stato di disagio arrivi ad una condizione quasi divina.

Nel 1978 hai dato alle stampe il progetto “La Tarantola va in Brasile”…
Francesco De Gregori voleva fare un tour con me, quello che poi fece con Lucio Dalla perché io dissi di no. A me interessava di più questo paesaggio di suoni delle radici, così decisi di andare in Brasile, ma prima di partire Giancarlo Cesaroni mi chiese di fare un altro disco. 
Lì ebbi modo di conoscere artisti come Toquinho e altri musicisti del giro di Milton Nascimento, nonché di suonare con alcune scuole di samba. Il risultato fu questo documentario sonoro “La Tarantola va in Brasile” nel quale suona anche Fafà De Belem. 

Quando hai cominciato ad esplorare la trance…
Non cerco il contatto con la trance. Facendo un certo tipo di musica la trance è una conseguenza naturale perché si ci immette nei ritmi della natura. Devi conoscere il ritmo del cavallo, bisogna avvertire questa creatività naturale, ancestrale, primitiva, che ci tocca dentro, non perché è un oggetto del passato ma perché è un qualcosa che produce ed induce in ognuno di noi. Io con la mia musica non racconto la taranta faccio una tarantata vera, è una grande differenza. Il mio non è uno spettacolo. Le mie canzoni degli anni Settanta mettevano insieme in modo irriverente le tradizioni pseudopopolari, il mondo agro-pastorale, teatro delle lotte contadine degli anni Cinquanta, ed il suo bisogno di cambiamento per uscire dalla miseria sia fisica che psichica, esaltando in un clima euforico e sfranto di tarantolati, l’istinto e l’energia vitale che ci spinge al cambiamento. Oggi non ci sono più muli o asini mia macchine, non ci sono più le strade polverose di campagna ma c’è l’asfalto. Non ci sono più i telegrammi ma c’è il cellulare. Non c’è l’immaginazione, ma c’è internet. Oggi parti e vai intorno al mondo e a te stesso in un clima forsennato di tarantati ruotanti di modo circolare in un ritmo sempre più vorticoso e come le comete escono fuori da un’orbita per entrare in un’altra, affiorano memorie del passato e visioni del futuro. Nella mia tesi di laurea in Architettura ho enunciato il principio della materia dea interndersi come corde vibranti. 
Voce e parola, in quanto suono, suono stringhe, corde vibranti, materia immateriale vagante nel cosmo, aggregandosi e disgregandosi tracciano orbite che si intersecano in infinite dimensioni assumento significati multipli e molteplici gradi di azione nel modificare la materia: affiorano, persistono e si dissolvono nella memoria, secondo concause, creando incui ed ossessioni, piacere o felicità.

In questo senso si sono mossi anche i tuoi studi sulla sezione aurea…
La sezione aurea è un suono specialissimo che contiene in sè: rumore, suono bianco, battimenti, interferenze, terzo suono, hyperarmonici, risonanze simpatiche, suono vuoto, sitenzio controfase, il tutto è prodotto con una semplice chitarra. Questo suono è solare, aperto ad infinite combinazioni creative, espressione della divina proporzione di cui ne è la risultante. Tale suono l’ho definito la nota d’oro che come il numero d’oro è alla base del ritmo. Questa nota applicata al rotante movimento della pizzica tarantata o della tarantella ne fa qualcosa di assolutamente trascinante ed esplosivo.

Il tuo gruppo è attualmente composto da giovani e giovanissimi. Da dove è nata questa scelta?
C’è un ricambio continuo con loro che sono cresciuti con le mie musiche. Io li perfeziono, gli insegno i trucchi, l’affinamento, i segreti per poter creare questa circolarità del suono che crea quello stato di trance di cui accennavamo prima. I ragazzi che suonano con me li faccio sempre improvvisare per tirare fuori da loro il massimo dell’energia e dell’autenticità. Quello che voglio non è un repertorio ma una creazione in tempo reale. 
Questa è arte di avanguardia che rimanda alla purezza delle colonne del tempio dorico, senza fronzoli, orpelli o curve. E’ essenzialità. Seguo l’insegnamento di Dario Fo e invitandoli direttamente a salire sul palco, perché quello è la scuola migliore e vale più di cento giorni di prove. Quando sei tu il mediatore, l’adrenalina che si prova in quei momenti la provi sulla tua carne. L’artista è come un medium tra il suo dentro e l’anima del pubblico. Per fare tutto questo è necessario essere liberi e la mente non deve avere il tempo di pensare, ma deve fare e pensare al tempo stesso. Bisogna essere in simbiosi con il pubblico. Nei miei concerti accelero e diminuisco il ritmo in base a quello che avverto dalla gente. Solo in questo modo si entra in sintonia con chi ti è di fronte, ma tutto questo non è sempre facile. La parola popolare salta, non c’è più perché non esistono categorie. Le onde antigravitazionali sono ancora qui e sono già proiettate verso il futuro, oltre quattrocento milioni di anni. In tutto questo tempo si ha modo di distinguere tra popolare e classico, sacro e profano. Cerco suoni che agiscano sulla percezione sensoriale come i cuba cuba, i nostri tamburi a frizione, hanno delle frequenze che vanno sotto i 7khz, come la danza delle api che è un vero e proprio linguaggio. 

Quanto è stato importante  il contatto continuo con la tradizione musicale della tua terra?
La tradizione bisogna interiorizzarla, non bastano solo i libri. Nella mia infanzia ho conosciuto Rocco Scotellaro, il poeta che ha guidato le lotte contadine, abitava 50 metri da casa mia,  ed era un grande amico di mia madre con cui era cresciuto. 
Scotellaro e mia zia che poi è diventata una missionaria in India sono stati allattati dalla stessa donna. Negl’anni Cinquanta c’era la miseria, e i contadini occupavano le terre e facevano scioperi, battagliavano, sparavano contro i carabinieri, ma poi mi prendevano in braccio con tanto amore. Per me non erano cattivi, perché volevano un pezzo di terra da coltivare , in modo da poter essere sicuri di dare da mangiare ai propri figli. Si può odiare questa gente o chiamarla delinquente? La mia musica è quella dell’anima degli uomini che sono contadini ma anche esseri umani. Mi hanno trasmesso questo calore quello che Scotellaro descrive nel verso: “soffiatemi dentro i vostri fiati caldi contadini”, quindi il respiro, l’anima stessa. Non c’è la differenza tra intellettuale e contadino , il contadino è intellettuale e l’intellettuale è contadino. Il mestiere non può essere confuso con l’intelligenza. Ho conosciuto veri e propri geni, dei sapienti da cui ho imparato tanto. Gli stessi pensieri profondi li ho ritrovati nei grandi filosofi da Parmenide a Leucippo, da Filolao Lucano ai pre-socratici che erano grandi osservaotri della natura. Sentivo parlare di contadini di classi subalterne, ma poi leggendo i libri capivo che i filosofi ragionavano alla stessa maniera. E’questione di linguaggi non di essenza. Questo alla borghesia non fa piacere perché ha paura di perdere il posto il suo ruolo. Io non ho niente da perdere e non avendo paura ho insegnato anche due anni all’università ad architettura.  Nel 1991 a Bruxelles sono stato insignito del Premio e dell’Alloro Accademico dell’Accademia Reale Belga di Scienze, Letteratura e Belle Arti, la antica Gilda di San Luca. 
Questo premio è superiore al Nobel nel settore delle belle arti. Mio padre pure essendo professore di francese e di letteratura con palma accademica del governo francese, faceva il contadino a novantasei anni coltivava ancora le viti innestava faceva l’olio a 0,0 gradi di acidità. La sera poi studiava, leggeva francese inglese portoghese, tedesco, teneva il tavolo coperto di libri, univa pensiero ed azione. Parlare di popolare vuol dire parlare di ciò che il popolo può produrre non occorre essere ricchi per essere geniali, a me interessa questo la purezza e questo non è una questione di classe o di mestiere, è necessario essere umani. Superuomo vuol dire andare al di là, oltre l’umano cercare il divino, cercare quella scintilla divina che è dentro ognuno di noi.

Hai collaborato alla realizzazione dell’ultimo album di Vinicio Capossela. Puoi parlarci di questa esperienza?
E’ un grande poeta, lui sta facendo un operazione interessante perché vede il mondo contadino del paese, i miti che venivano sognati, e li mescola ai mariaci al tango al valzer. Prende gli originali e li restituisce con suoni nuovi come quelli Tex Mex.

Concludendo, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
A breve entrerò in studio per un disco sui suoni ancestrali, quelli presenti in natura e quelli che sono nel subliminale di ognuno di noi. Questo nuovo lavoro sarà distribuito dalla Sony in tutto il mondo.


Salvatore Esposito

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