Monica Pinto – Canthara (MaxSound, 2016)

Chi ha conosciuto il calore e il colore del canto di Monica Pinto con SpaccaNapoli/Spakka-Neapolis 55 e, prima ancora, nella versione world-oriented de ‘E Zezi, potrebbe restare sconcertato dal nuovo, inatteso e ardito corso artistico intrapreso dalla vocalist, che in questo suo primo album solista, prodotto da Max Carola, si fa autrice ed interprete di una chanson elettronica, tenendosi alla larga dai vecchi e nuovi cliché della napoletanità. Il titolo “Canthara”, commenta la cantante napoletana, unisce le due parole "canto" e "hara" (quest’ultimo nello zen è il centro vitale dell’equilibrio tra mente e corpo) a rappresentare l’incontro tra due stati dell’anima complementari nel creare l’armonia del tutto. Musica e liriche che respirano in simbiosi con natura, arte e tecnologia. Una Monica Pinto che abbandona l’afflato terragno della lingua napoletana per l’idioma nazionale, ma soprattutto si reinventa in un’espressività limpida, eterea ed evocativa, che non ripudia la melodia, riprendendo la mai obliata lezione di cantautori storici italiani (Tenco, Fossati, de André e Battiato) e degli chansonnier francesi. Anzi, la contorna costruendo tessiture pop e post-rock, colte e raffinate, fondendo strumenti acustici e digitali, portandoci, inevitabilmente, a pensare alle avventure soniche dell’islandese Björk. Il disco si dipana in dodici brani minimali e stratificati al contempo, con i due inserti “Canthara I” e “Canthara II”, in cui è complice nella scrittura Salvio Vassallo (Do you remember “Il Tesoro di San Gennaro”?). Il primo è una rielaborazione elettronica dell’antico suono curativo giapponese ‘wun’ (emesso nel registro grave, il suono risalendo lungo la colonna si espande in tutto il corpo che si radica alla terra), il secondo riprende suoni yogici (i bija mantra ‘ham’ e ‘ram’, i suoni prodotti dalla rotazione dei chakra, rispettivamente il quinto e il terzo), posti in una successione che produce una connessione armonica tra energie discendenti e ascendenti dell’essere e, quindi, tra il radicamento alla terra e la proiezione verso l’alto. L’autobiografico “Viaggio Incompiuto” è l’energico biglietto da visita dell’album, singolo e video, mentre ne “L’ideal-mente”, in cui si fanno avanti le riflessioni sull’identificazione nei propri ideali che può condurre alla chiusura nei confronti degli altri, si prende un ruolo di primo piano il violoncello di Manuela Albano. Tra i pezzi più intensi c’è senz’altro “Nuovamente Essente”, l’immaginario incontro con la propria morte, trasfigurata nelle sembianze di una donna a cui ci si consegna: qui brilla il violino di Edo Notarolberti. In “Anime minori”, lo sguardo si apre sulle ineguaglianze del mondo. Sorprendono il valzer musette e le movenze folk di “Schermo della felicità” (la fisarmonica è di Sasà Piedepalumbo), un appunto critico sulla televisione che offusca la coscienza critica. Si cambia registro, ed ecco “Aria”, elogio dell’elemento etereo, del respiro, che musicalmente ci porta dalle parti del gregoriano. L’ispirazione dostoevskiana è il punto di partenza de “Il bacio sulla bocca”, che improvvisamente assume sapore jazz-balcanico (ancora la fisa di Piedepalumbo). Ha un titolo assertivo “Apri le gambe”, nel suo rimarcare la libertà dell’erotismo femminile: un «inno al potenziale femminile», spiega ancora Monica, una presa di posizione forte messa a contrasto con il mood morbido del brano. È il passare del tempo, l’equilibrio tra gioia e dolore il tema reso nella cantabilità elettro-acustica di “Tutto va bene”. Una composizione di Fausto Mesolella intitolata “Per la rivoluzione”, con il pianoforte di Tommy De Paola e il superbo arrangiamento di Ernesto Nobili (chitarre, prog e midi), è l’ultima traccia, altro momento topico di questa opera avventurosa. 


Ciro De Rosa

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