Il duo Free Dot è composto da Paolo Pacciolla e Antonio Cotardo e il nuovo album “Echoes” è un fascio di composizione ed estemporaneità che si snoda attraverso sei tracce piene e profonde. Paciolla – polistrumentista, compositore, etnomusicologo e insegnante al conservatorio di Vicenza – suona vari strumenti (tra i quali mbira, bodhran, steel pan, mouth arp) e canta. Cotardo suona i flauti, che in questo contesto stretto ancorchè frenetico e denso, assumono un ruolo melodico preponderante, nel quale confluiscono un insieme di rappresentazioni coerenti e spesso forti, legate a doppio filo a un paesaggio sonoro articolato (“Flute, birds and the night”, “Rain”, “Air movements”) e a una tensione introspettiva ricca di spunti di riflessione. La formazione del duo, che evidentemente spinge le esecuzioni su un piano sperimentale e fuori da ogni retorica etnicista, è abbastanza recente e ha prodotto tre album in tutto. I primi due – “Ariband” del 2009 e “Just Flux” del 2013 – sono stati realizzati in collaborazione con la label londinese Slam, mentre “Echoes” è maturato in seno a Sutra Arti Performative, un laboratorio di musiche e danze che moltiplica gli interessi dei due pilastri (Luisa Spagna, oltre a Paciulla) verso lo studio, la ricerca, l’organizzazione di eventi e la produzione artistica. L’ascolto di “Echoes” non è semplice, specie nei primi approcci, ma fin da subito si configura come interessante e curioso. Non solo perché le forme che assumono i suoni sono eterogenee e vagamente stranianti, ma soprattutto perché si percepisce una struttura coesa, uno sviluppo coerente. Insomma una serie di avvicendamenti – nelle melodie, nel ritmo, nei timbri – che riflettono un programma senza freni né formali né strutturali: la definizione di uno spazio libero ma mai amorfo, nel quale i confini non sono definiti convenzionalmente ma si percepiscono in modo chiaro. Specie dopo che si entra in sintonia con il linguaggio dei due esecutori, che si alternano e si sovrappongono, si rincorrono, si incrociano senza mai scontrarsi, anzi lavorando ogni passaggio con attenzione, con rifiniture certosine. Quando si entra in questi echi, d’altronde, non possiamo illuderci di poterci accomodare e aspettare passivamente di essere colpiti dalle “soluzioni” imbastite da chi produce il suono. Ci dobbiamo piuttosto preparare a lavorare sulla nostra capacità di assorbire un insieme di riflessi, di ritorni, di rimbalzi. Ci possiamo sedere e sdraiare ma con attenzione, con lucidità, con la prontezza di chi deve scoprire la formula che tiene insieme i dati. Perché, soprattutto se non si ha un orecchio elastico o se non si ha dimestichezza con il suono di certi strumenti, ciò che sono capaci di evocare e i risultati che l’accostamento tra alcuni di questi possono determinare, non si ha nessun riferimento o nessuno strumento di interpretazione. Invece, con attenzione e con il giusto grado di permeabilità, si può comprendere l’effetto di “Echoes”. Che può essere ricondotto alla performance, certo, ma anche alla configurazione di un linguaggio estremo non tanto nella forma, quanto nel codice. In altri termini, forse la soluzione è proprio provare a comprendere attraverso uno sforzo di riconoscimento. Riconoscere ad esempio la volontà di creare una narrazione epica, senza tempo e senza luogo (senza convogliare le energie nell’esercizio di localizzazione del suono degli strumenti, che genera soltanto un’illusione e una deformazione irriducibile). D’altronde il duo ci parla di pioggia, di movimenti, di aria, di uccelli, di notte (basta scorrere i titoli dei brani in scaletta): sono le componenti dell’illusione, il ribaltamento, il rovescio di una visione pragmatica. Sono gli effetti di una riflessione, di un insieme di suggestioni che ci devono colpire. E gli autori ci danno tutto il tempo necessario: “Rain”, uno dei brani più interessanti dell’album, ha una durata (epica) di oltre dieci minuti. E, anche per questo, ciò che evoca è un paesaggio sonoro, un passaggio dentro una dimensione descrittiva fondata sull’evoluzione e la variazione.
Daniele Cestellini
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