La tag dice Iranian-Semitic-Gypsy. Improbabile? Mettiamola così: provate ad ascoltare “Travel Journal of Insanity”, che è la chiamata a raccolta, la dichiarazione d’intenti, l’attacco irresistibile con folate di cimbalom (Marinel Sandu) su contrabbasso, voce ed elettronica. Ebbene, stiamo parlando di “Taxidriving under-City” di BadMashadi, alias Ehsan Mashadi, cantante, fisarmonicista e percussionista (suona il tamburo a cornice daf) autodidatta, film-maker (laurea in cinema al Columbia College di Chicago) e tassista; nato in Iran, emigrato a Chicago sedici anni fa, oggi vive tra Bucarest e ‘The Windy City’. Tempo fa, dopo essersi invaghito della musica dei Taraf de Haidouk, Ehsan ha fatto rotta sulla città di Clejani, e con Marin “Tagoi” Sandu, figlio del compianto violinista Nicolae Neacşu, ha prodotto l’album ‘Bahto Delo Delo’ (si veda qui). Ora è la volta del suo “Taxidriving under-City”, registrato tra Chicago, Clejani, Bucarest e Skopje. Tutti i brani sono composti da Ehsan Mashadi, ad eccezione di "Nemisheh", basato su una ninnananna rom, e una traduzione di "To Wear This Crown", firmata da Tom Musick, con cui Ehsan ha suonato. I testi in lingua farsi riflettono lo spaesamento, le aspirazioni e le contraddizioni dell’esperienza migrante, soprattutto dalla prospettiva di chi vive negli States, tra overdose di multiculturalismo, ‘globalofobia’, libertà, pregiudizio e razzismo e presunti ‘scontri di civiltà’, filtrati anche attraverso la visione di un taxi driver dell’umanità viaggiante. Mi dice: « Si tratta di accettare il ruolo di ‘perdita’ nella vita, abbracciando la condizione di essere un immigrato permanente in un mondo che sembra avere sempre meno spazio per le persone come me, persone che sono considerate dissidenti da una parte e invasori dall'altra, e che non hanno un posto da chiamare casa, ma che vivono nella faticosa ricerca di luogo di appartenenza». Badmashadi riunisce, sotto la sua egida, uno stuolo di dotati musicisti. Musicalmente, il disco è una fusione spuria di musiche festive dell’Est Europa e del Medio Oriente, con inserti urban dance. In primo piano ci sono fiati, violino, tastiere e dosi di elettronica, tenuti insieme dal disincanto canoro di Eshan. Dopo la fulminante traccia d’apertura, c’è spazio per un brano prestato dalla tradizione rom ungherese, “Nemisheh”, che porta in dote un bel solo di chitarra di Alex Wing. La tromba di Andrei Balaceanu si libra contrappuntando e accompagnando la voce in “Februarism”. Si afferma il battito di tamburi a cornice in “Shandizi” (accanto vi sono il violino di Mihai Balabaș, il contrabbasso di Kiril Tufekcievski e il sax soprano di Kiril Kuzmanov). È la trasfigurazione di un villaggio in festa “Intangible Home” (per tastiere, elettronica, tamburi e fiati, canto), mentre si aprono squarci rock in “Falling”, si avverte una virata jazz-swing in “Biography’n’Sax”. Altrove prevalgono cut’n’mix di voci di passeggeri, effetti ambientali ed elettronica (“Taxidriving Undercity”), influenze arabe (“Falling”). Poi è la volta di voce, fisarmonica e violino, che rileggono la già citata “To wear this crown”. Infine, la fisarmonica solitaria di Badmashadi accompagna il fine turno di “Improvisation for Last Passenger”. Info su http://badmashadi.com/
Fanfara Station è un altro connubio senza frontiere, di quelli che appaiano musicisti provenienti da parti del mondo completamente diverse, che hanno trovato Napoli come approdo. Marzouk Mejri, percussionista, compositore, cantante e flautista nato a Tebourba, nord est tunisino, da una famiglia musicale, è arrivato all’ombra del Vesuvio venti anni fa. Se vi siete persi il suo palpitante album d’esordio, “Genina”, siete ancora in tempo per riparare. Affermato musicista, negli anni lo abbiamo ascoltato e visto con il Mediterranée Ensemble, il Marzouk Ensemble e accanto a Peppe Barra, Eduardo De Crescenzo, 99 Posse, Daniele Sepe ed altri ancora. Marzouk è stato tra i protagonisti del docu-film “Napolislam” di Ernesto Pagano, mentre è in produzione un’altra pellicola (titolo provvisorio “I semi di Marzouk”), imperniata proprio sulla sua vita. Invece, Charles Ferris arriva da San Francisco (nato in Canada, a Toronto, adolescenza trascorsa a Louisville, Kentucky), trombettista con studi di etnomusicologia alle spalle, una predilezione per l’improvvisazione e immersione totale nella musica delle fanfare balcaniche (rom e macedoni, soprattutto). Giunto a Napoli per studiare il mondo sonoro popolare dell’entroterra partenopeo, Ferris finisce per restarvici. Come Marzouk, anche lui mette su famiglia, diventando uno dei più acclamati session man locali, coinvolto nei progetti più disparati. Dopo dieci anni di collaborazione su una scena partenopea sempre in tensione tra radicamento e ibridazione, i due polistrumentisti hanno trovato il ‘common ground’ nella Fanfara Station: Marzouk (voce, darbouka, tar, tabla, skascka, castagnette, mizwud, zocra, nay) e Charles (tromba e trombone), che ha pubblicato il primo EP eponimo. Fiati, effetti, percussioni e voce, un duo che suona come un’orchestra, spinta dal groove incessante. Si tratta di un precipitato di flussi sonori migranti, con liriche che riprendono poesie classiche arabe e poeti contemporanei tunisini o, ancora, portano la firma del musicista maghrebino. Il disco si sostanzia in sei composizioni che si nutrono di ciclicità folk-blues, di ritmi provenienti dallo stambeli (la musica di ascendenza sub-sahariana), della musica d’arte araba di espressione tunisina, della tradizione popolare dell’entroterra partenopeo. Gli ottoni di una fanfara balcanica incrociano una banda municipale del sud, nutrendosi dei quarti di toni arabi e aggiungendo sprazzi di melopea napoletana in “Gazela” (dove citano “Cicirenella”). Densa e avvolgente nella sua stratificazione sonora è anche la successiva “Sus”, titolo che contiene la parte iniziale della parola napoletana ‘susete’, ossia ‘alzati’: una visione dell’amore inteso come comprensione, desiderio e passione fondati sulla reciprocità. In “Rahail” la tromba ricama sul fraseggio del flauto ney e sull’incessante sostegno percussivo, si aprono vortici balcanici e squarci improvvisazione, mentre la voce di Marzouk commenta le difficoltà di chi emigrando ha avuto il coraggio di lasciare la sua terra di origine, ma poi resta ghettizzato in un unico spazio urbano di emarginazione, rinuncia a cercare quel cambiamento che lo aveva spinto alla partenza. Invece, “Talila” è un canto propiziatorio di festa ispirato alla musica popolare del sud tunisino. È uno dei brani più rappresentativi dell’incontro tra Charles e Marzouk, per la sua tessitura corposa, che fonde melodia medio-orientale, ritmi afro-tunisini, tammurriata e vibes blues. “Mariage” canta l’amore sognante, ma consapevole che amare significa anche avere dedizione per l’altro. Infine, per portare la musica a temperature ancora più torride, c’è l’iniezione di loop ed elettronica di Ghiaccioli e Branzini, alias Marco Dalmasso, DJ & producer torinese ma fiorentino d’adozione, che ha messo le mani su un brano e che unendosi al duo sul palco crea un impatto ancora più festaiolo. Ecco allora che “Sus” si rigenera nel trattamento dub-electro-dance del performer digitale. Info a fanfarastation@gmail.com oppure www.facebook.com/fanfarastation.
Ciro De Rosa
Tags:
Asia