In origine forma di canto proprio della popolazione musulmana di Bosnia, la sevdah o sevdalinka è diventata in un certo senso un genere nazionale, in quel processo culturale di ‘creazione’ identitaria che ha prodotto la frantumazione della Jugoslavia e ha portato, con le guerre balcaniche di fine Novecento, alla nascita dello stato della Bosnia-Erzegovina. Alla radice della parola c’è forse l’arabo ‘sawda’ (bile nera, responsabile dello spleen, secondo credenze antiche) o ancora il turco ‘sevda’ (che è l’amore passionale, ma anche quello venato di tristezza), termini che rimandano comunque a un mood malinconico. Le sevdalinka si presentano sotto forme diverse di canto e d’accompagnamento; l’uso della voce piena di melismi, il ritmo libero, il rubato, gli elementi microtonali sono il lascito del mondo orientale, mentre l’ambito strumentale, con la presenza di strumenti come fisarmonica, violino e chitarra, che hanno affiancato o sostituito il liuto a manico lungo saz, è riconducibile al portato musicale occidentale. Volendo, forzatamente, sintetizzare, è chiaro che la sevdah è un prodotto sincretico, sedimentatosi nella confluenza tra retaggio multiculturale ottomano (in cui non sono estranei i contributi sefarditi e rom) e mondo europeo, soprattutto di matrice austro-ungarica e slava. Sebbene i temi più comuni abbiano da sempre riguardato l’amore romantico, con tanto di abbandoni e struggimenti e testi pieni di simboli e metafore, molte sevdalinka celebrano luoghi e personaggi. Non ripercorreremo in questa sede tutte le trasformazioni in termini vocali, di armonizzazione e di arrangiamenti cui è andata incontro questa forma urbana che nell’arco del Novecento è molto cambiata, anche per l’influenza dei media (specialmente la radio nella seconda metà del XX secolo). Solo per fare un esempio, si pensi all’ostracismo modernista nei confronti dell’accompagnamento con il saz (circoscritto ai programmi di musica tradizionale) e il cambiamento di orientamento indotto dalla metà degli anni Novanta dal fervore identitario, quando la sevdah suonata con il liuto di origine turca ritrova una piena collocazione nella programmazione della radio nazionale. È del 2008, poi, la ristrutturazione a Sarajevo di un edificio, denominato Art Kući Sevdaha, tempio musicale che ospita documentazione su questo genere urbano. Con il tramonto dello storico ensemble Mostar Sevdah Reunion (anch’esso frutto di dinamiche globale-locale), nuovi talenti innovatori si sono affacciati: pensiamo ad Amira Medunjanin o a Damir Imamović, entrambi di Sarajevo. Anche loro originari della capitale bosniaca, i Divanhana, formatisi all’Accademia Musicale, si sono messi insieme nel 2009. Non siamo di fronte alla spudorata, piratesca macchina sonora dei Dubioza Kolektiv, che spopola di recente nell’asfittico mondo rock occidentale, ma ad un ensemble più raffinato, ad ogni modo una band che sa il fatto suo. Il sestetto base ruota intorno a Leila Ćatić (voce), Neven Tunjić (piano e direzione artistica), Nedžad Mušović (fisarmonica), Azur Imamović (basso), Rifet Čamdžić (batteria), Irfan Tahirović (percussioni), il supporto di Borjan Milošević, produttore e fonico responsabile degli effetti sonori, e con la collaborazione di violini, chitarre, fiati (“Zvjezda Tjera Mjeseca”) e un’orchestrina di tamburitza, che interviene nei tradizionali “Ciganka Sam Mala” e “Pijanica, Bekrija”. Già visti in Italia in tour, i Divanhana hanno inciso da poco il terzo album, realizzato prima da Belgrade Multimedia Music, per il mercato dell’ex-Jugoslavia, e ora pubblicato da ARC Music per quello internazionale. Il titolo “Zukva” fa riferimento a una mela aspra (una specie in pericolo di estinzione – ci dicono le note del booklet – che cresce nella Bosnia orientale, in prossimità del confine con il Montenegro), albero dalle radici forti e che dà piccoli frutti. Una pianta che non si trapianta, ma s’innesta facilmente, dando vita a frutti più resistenti. Ecco che la ‘zukva’ diviene metafora per un’espressione che si combina agevolmente con altre forme musicali. Quindi, i Divanhana propendono per una sevdalinka che ingloba arrangiamenti moderni, pur conservando il suo pathos, con le voci che conducono il brano a partire da quella principale di Leila, vocalist dall’emissione dolce, timbro eccellente e versatile. La band fa convivere i tratti stilistici propri del genere con la sensibilità jazz e pop (“Sejdefu Majka Buđaše”, “Zapjevala Sojka Ptica”). Il disco si disvela all’ascoltatore con la vigorosa combinazione “Oj Safete, Sajo, Sarajlijo” e “Da sam ptica”, mentre l’inventiva negli arrangiamenti primeggia in “Zašto Si Me Majko Rodila” e “Otkako Je Banja Luka Postala”. Mette in moto vibrazioni interiori il canto di Leila assecondato da due fisarmoniche (basso e baritono) in “Emina”. Grande appeal.
Ciro De Rosa
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