BF CHOICHE: Tre Martelli & Gianni Coscia - Ansema (Felmay, 2014)

Intervista con Gianni Coscia 

Maestro Coscia, qual è il suo rapporto con la tradizione popolare? 
Da bambino, ascoltavo mio padre che suonava la fisarmonica, ma poi avevo un cugino calciatore, che ascoltava musica americana e che me la faceva sentire. Avrei voluto suonare la tromba…, ero un ragazzino, ma non avevo nessun maestro. Mio padre mi detto “Questo è il DO della fisarmonica, vai avanti tu”. Mi sono trovato in mano questo strumento, che io non amavo particolarmente. Adesso mi sono un po’ affezionato, ma sarà perché … sono molto vecchio (ride). Che cosa succede? Che io per tutta la vita mi dedico alla musica jazz, con uno strumento che soprattutto negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, quando ho fatto un altro mestiere, era all’indice; i jazzisti della mia generazione, i complimenti migliori che mi facevano erano: “Sei bravo, perché non cambi strumento?”. Poi ‘sta storia finisce, c’è un risveglio. Quando io ho lasciato il mio lavoro precedente, una volta andato in pensione, ho scoperto un grande interesse verso questo strumento: sono arrivati i francesi. Era un momento nel quale se uno suonava le cornamuse o le launeddas sarde, andava bene tutto. Forse anche per via del free jazz che ha rotto certi schemi. Negli ultimi tempi, arriviamo negli anni della terza età, mi sono trovato, forse con l’ausilio di qualche fotografia di mio padre, a sentire delle cose che suonava mio padre, ma non perché fossero scritte o incise, perché era tradizione orale. Ho scoperto che avevano un’enorme disponibilità ad essere rivisitate. Ma ho scoperto l’acqua calda… perché tutti i grandi come Kodaly, Čajkowsky, Rimsky-Korsakov, hanno attinto alla tradizione popolare. Ripensando alle cose che suonava mio padre, mi sono reso conto che questi dilettanti, questi orecchianti suonavano delle cose che, oltre che essere belle, avevano anche un’enorme disponibilità ad essere rivisitate. Così venti anni fa, e forse più, nell’incontro con Trovesi, per esempio, ho cominciato a rivisitarle in chiave jazzistica, sfruttando l’esperienza e la cultura jazzistica che nel frattempo mi ero fatto. Infatti, ci sono delle incisioni su queste cose. Il primo disco era “La Briscola”. E poi li ho sempre utilizzati. Ancora adesso… ultimamente sono andato addirittura a cercare materiali di Frescobaldi (Si riferisce alla ricerca sfociata nel CD “Frescobaldi per Noi” del 2007, inciso in quartetto con Flavio Sigurtà, Dino Piana, Enzo Pietropaoli, ndr). Quindi, è abbastanza ovvio che ad un certo punto abbia trovato un interesse vivissimo di questi complessi tipo i Tre Martelli, che io stimo tantissimo, perché loro fanno un lavoro molto filologico. È una musica di estremo interesse, li ho seguiti molto questi gruppi qua. Non è la prima volta che collaboriamo. 

Cosa è cambiato con “Ansema” rispetto alle precedenti collaborazioni con i Tre Martelli? 
Nel primo disco che ho fatto con loro, suonavo la fisarmonica di mio padre come lui avrebbe suonato questa musica. Adesso, nell’ultimo disco siamo andati un po’ più in là. Non è che si tenti una fusione – che poi la musica è tutta una fusione, perché se non ci fossero le fusioni non andrebbe avanti il mondo: si incontrano culture e realtà diverse e queste cose si fondono – il mio intervento in alcuni punti mantiene la mia caratteristica jazzistica su una base che loro lasciano inalterata. Per esempio, “Mazurtango” è una mazurka che si trasforma in un tango moderno, perché si è inventato che questo signore monferrino emigrato in Argentina ricorda la musica popolare piemontese, però sente anche il tango. E ne esce fuori una mazurka-tango. Ci sono altri interventi in cui improvviso, come se avessi sotto un background jazzistico. Questa la trovo una cosa molto divertente, molto interessante. Intanto, loro sono bravissimi, il violinista, quello che suona la cornamusa e il piffero. Anche lui ad un certo punto si è messo ad improvvisare su un giro armonico assolutamente inusuale per loro, un giro che si usa in campo jazzistico moderno. È un esperimento che non so se va avanti, ma per il momento l’ho trovato molto interessante. Sono sempre stato sostenitore di un jazz europeo , di un jazz che abbia le nostre radici. Perché il jazz è un linguaggio. Se devo fare una critica ai giovani, che hanno una tecnica eccellente, è che nel momento in cui finiscono la scuola, dovrebbero partire da lì. Invece loro ritengono quello un punto d’arrivo. La tecnica che si insegna al Conservatorio è un punto di partenza, non un punto d’arrivo. Hanno imparato una tecnica raffinata, hanno imparato un linguaggio, ma il contenuto? Dobbiamo continuare per tutta la vita a suonare sul giro del blues? A suonare Bernstein? A suonare “Lover man”? Oppure possiamo anche attingere alle nostre radici, alle nostre tradizioni, che sono molto più profonde? Ecco lì i miei primi dischi, quando ho fatto “La Briscola”, quando ho fatto “Il Bandino”, “La bottega…”, in fondo ho sempre pescato nella tradizione popolare piemontese, sempre con un rigido linguaggio e contenuto jazzistico. In questo caso, invece, la novità di questo lavoro è che ho lasciato che loro si esprimessero. Anche perché suonano strumenti limitati, che hanno un campo musicale molto ristretto, che devono suonare in certe tonalità. Da parte mia ho provato ad improvvisare, a suonare con loro come se sotto avessi una base tradizionale jazzistica, e l’ho trovato molto divertente. Che poi sia condivisibile, questo è un altro discorso… 

Dall’alto della sua immensa esperienza di musicista e compositore, che insegnamento le ha dato questo incontro con i Tre Martelli? 
Trovo che è stato anche per me un arricchimento, non solo un esperimento per dire: “Vediamo come stanno il bianco e il rosso insieme”. Anche loro si sono leggermente aperti, per esempio quando passiamo dalla mazurka al tango: ad un certo punto questo passaggio li costringe a fare un tessuto armonico inusuale, ed anche il pifferaio, che improvvisa, non è abituato a girare su quegli accordi. Nello stesso tempo io trovo una spinta, anche emotiva, che è nuova. Naturalmente non c’è lo swing, non c’è l’armonizzazione tradizionale jazzistica. Però, io riesco a suonare, riesco ad essere me stesso. È stato un contribuito che ci diamo, io con loro, loro con me, che è estremamente interessante. Sono stato sempre un sostenitore, io, come Trovesi, forse Surman ed altri ancora, tutti europei, che se il jazz vuole avere un’apertura, se vuole avere un futuro deve uscire da certi schemi, soprattutto per gli europei. Noi abbiamo tanto materiale. Questo lo ha già fatto Trovesi con i suoi dischi, attingendo alle bergamasche, alle danze. Abbiamo tanto materiale che ci può servire, materiale con cui aprire nuovi orizzonti, nuovi spiragli. Certo, i puristi si scandalizzano! Ho ricevuto critiche già in passato: “Eh, fa le cose con Trovesi… ma quando suona ‘Sweet Georgia Brown’ è più genuino”. Sì, “Sweet Georgia Brown” mi piaceva fin da bambino, ma questo non può impedire di suonare brani ispirati alle nostre tradizioni. Che noi abbiamo, e magari gli americani non hanno. Che poi, tra l’altro, diciamo una cosa fondamentale: perché è andato avanti il jazz in America? Perché sono cambiati gli stili? Da New Orleans allo swing, alla West Coast, e poi anche il jazz elettrico, fino alla musica latina? Perché arrivavano personaggi che portavano un contributo. Adesso sono vent’anni che sono fermi, pur avendo musicisti eccellenti, perché non arriva più nessuno. Infatti, i capiscuola di questa musica sono rimasti Miles Davis e pochi altri. Credo che non si possa suonare la tromba meglio di come la suona Marsalis, ma se vogliamo, dal punto di vista della storia del jazz hanno fatto di più Chet Baker, Louis Armstrong, Miles Davis. Ho la sensazione che il jazz là sia fermo. È mancato un apporto che dia linfa. L’Europa o, potrebbe essere, l’Asia possono dare un contributo. Quindi, anche l’incontro con i Tre Martelli per me è molto vivacizzante. 


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