Eclettico trombettista e compositore ruvese, Pino Minafra è l’ideatore e il direttore artistico del Talos Festival, prestigiosa kermesse giunta quest’anno alla sua ventesima edizione. Lo abbiamo intervistato per ripercorrere insieme a lui la storia di questo prestigioso festival pugliese dedicato alla musica delle bande, e per presentare la nuova edizione ormai alle porte con l’anteprima che si terrà dal 4 al 10 settembre 2014, e il Festival internazionale che animerà Ruvo di Puglia dall’11 al 14 settembre.
Quali sono state le principali motivazioni che ti hanno spinto a dar vita al Talos Festival?
E’ una mia reazione nella non accettazione di un Sud nichilista, rassegnato e descritto da altri. Il Sud è una terra grande, piena di storia e di bellezze dai paesaggi alla gastronomia. E’ una terra di cultura. In Calabria, a Crotone c’è stato Pitagora, di fronte a noi abbiamo la Grecia dove è nato il pensiero occidentale, e Ruvo di Puglia ne è una testimonianza piena con un grande museo nazionale, il Museo Jatta, dove è conservato un cratere del IV sec. A.C. con una prospettiva tridimensionale, è il primo esempio di questo tipo di pittura nella storia dell’arte. Lì è nata la mia ispirazione, da questo anonimo artista di cui non sapremo mai il nome, che con questa sua intuizione ha dato un input nel percorso della storia dell’arte. Credo che ognuno di noi debba reagire per evidenziare il meglio, alla ricerca di una qualità di vita, di formazione maggiore. Certo tutto questo non avrei voluto farlo perché avrei preferito restare musicista, ma come si dice da noi: “Aiutati che Dio ti aiuta”, perché il momento della cultura è quello che è. La cultura in Italia è una cenerentola che non viene mai messa in evidenza. Questo è un problema nazionale ormai vecchio. Qui in Italia abbiamo il 70% dei beni architettonici del mondo, che tutti ci invidiano, per non parlare della letteratura, della musica, della gastronomia, della moda, ma noi facciamo finta di nulla. Quando hai lucidità su questi concetti, o ti arrendi ed accetti questo stato di cose, oppure metti in campo quello che puoi. Devo dirti la verità, sono nate cose estremamente importanti come la Italian Instabile Orchestra, la Banda, questo laboratorio incredibile, ma ho devastato la mia vita e con me anche mia moglie Margherita e mio figlio Livio, perché è un compito arduo, per chi insegna, suona, studia, pensa, respira, e si carica di un qualcosa di enorme che al Sud tenta di muovere con il grimaldello un attenzione politico-culturale su quella che è la parte più nobile nostra, la nostra storia.
Talos Festival nasce nel 1993, e tu per larga parte ne sei stato il direttore artistico. Ci puoi raccontare questo percorso ventennale? Quali sono state le difficoltà incontrate e quali i successi?
Prima di Ruvo di Puglia, con il mio amico Vittorio Curci ho dato vita ad un laboratorio veramente grandioso, l’Europa Jazz Festival, il primo festival jazz dedicato all’Europa prima che l’Europa stessa si facesse. Parliamo del 1989, ed era un laboratorio dedicato prettamente alla radicalità, si è trattato di uno schiaffo incredibile in un momento veramente iperamericanizzato dei festival italiani, e tutto questo è avvenuto in un paesino piccolo come Noci (Ba). Era un osservatorio dedicato all’avanguardia, quindi per la prima volta arrivarono i musicisti dalla grande Russia, ma anche la prima volta che nacque la Italian Instabile Orchestra. Ci fu anche l’interessamento di Steve Lake, braccio destro di Manfred Eicher e nacque anche un disco per ECM, “Skies Of Europe”, un grande capolavoro. La Instabile è un gioiello unico nella storia del jazz italiano! Io avevo questo precedente importantissimo. Pensa che l’Espresso ci dedicò sei pagine, titolando “I Magnifici Dieci”. All’epoca c’era il Festival Della Valle D’Itria che si occupava di musica del Settecento e di musica barocca, quindi il Festival di Noci poteva essere l’altra facciata della Puglia con un respiro contemporaneo. La nostra Italia però è stata sempre un po’ provincialotta, e americanizzata.
Questo è un dato di fatto. Dopo cinque anni a Noci nonostante tutto il nostro impegno, questa esperienza non si era consolidata, arrivai a Ruvo di Puglia con l’intenzione di aprire uno spazio nel mio paese, che tra l’altro ha una storia bella, più complessa ed articola di Noci. Quindi la prima parte di questo periodo dal 1993 al 2000, è stato un po’ caratterizzato da una visione sul Mediterraneo, quindi ricollegandoci alle radici del nostro territorio, miravamo ad aprirci verso l’ottica europea, con uno sguardo alla ricerca e all’avanguardia. Questo primo periodo si è chiuso con qualcosa di incredibile con la Italian Instabile Orchestra che ha incontrato Cecil Taylor con cui ci siamo esibiti a Parigi l’anno successivo, e a vederci sono arrivati anche dall’Australia, è arrivato anche John Cumming da Londra che è il deus ex machina del London Jazz Festival, e questo evento è stato documentato dalla Enja Records. Ruvo però non ha gradito questa svolta contemporanea e da quel momento arrivarono una serie di critiche molto dure, che vivendo in un piccolo centro, noi sentivamo questa aggressività quotidiana. Il fatto di aver fatto il passo molto spericolato mi è costato un attacco feroce, e l’essere lasciato in perfetta solitudine. In quel momento decidemmo con mia moglie di cambiare proprio aria, per recuperare un po’ di quell’equilibrio fisico e psichico che stavamo perdendo.
Decidesti così di abbandonare il Festival...
Queste cose lasciano dei segni importanti nelle persone sensibili. Non ho problemi ad ammettere che fummo costretti ad andarcene. Adesso abito a dieci chilometri di distanza, a Mariotto in aperta campagna. Abbandonai così in segno di protesta il Festival perché la mia idea era quella che questo evento si dovesse consolidare in una Fondazione per far sì che restasse in vita nonostante i cambi degli amministratori locali. Questo tipo di festival spesso hanno una sorte simile, ed essendo legati agli amministratori, al sindaco, o all’assessore di turno, conclusa una pagina politica finiscono per morire. Tutto ciò non è costruire ma vivere hic et nunc, senza lasciare alcuna traccia. Quindi io mi sono rifiutato di continuare da solo, in mezzo a mille difficoltà. Nessuno capisce la fatica enorme che c’è dietro le quinte. Non sto a sottolineare che sofferenze abbiamo patito, e che violenza abbiamo subito, quando all’interno del festival si sono affacciati personaggi mercenari che non hanno nulla a che fare con quella visione e quella poetica che lo aveva ispirato, ma erano semplicemente attratti dal fatto che c’erano dei soldi. E’ stato un periodo veramente durissimo che è durato diversi anni.
Nel 2004 sei tornato alla guida del Festival...
Poi sono tornato al Talos nel 2004 con la speranza che si consolidasse il progetto della Fondazione, ed anche in quell’occasione abbiamo raggiunto un momento altissimo. Infatti con la Banda andammo a Münster invitati dal Festival di Münster con tutta l’economia di Ruvo, il vino, la ceramica, l’amministrazione comunale, fu una vera dimostrazione di come la cultura quando viene progettata intelligentemente possa dare risultati straordinari. Purtroppo gli amministratori che gestivano in quel momento il comune sono andati via, e meno male perché non furono corretti con il Festival di Münster, e da quel momento sono passati altri anni, finché questa vicenda non è andata a finire in mani sempre più povere, e la politica ha stoppato il Talos Festival. Tra anni fa con questa nuova amministrazione, e soprattutto con la figura di Pasquale De Palo, un giovanissimo professore di veterinaria dell’Università di Bari colto e capace, ma anche musicista, che ci ha consentito di ripartire. Questa volta il focus l’ho dovuto deviare su una tradizione che è signora in Puglia. Non si può pensare a questa regione solamente come la terra della Taranta, ma ci sono due secoli di tradizione bandistica che la politica ignora. Ci sono ottomila persone in Puglia che sono invisibili. La tradizione bandistica qui in Puglia è una sorta di Cenerentola, tutti sanno dove sta, ma nessuno la va a trovare. Questo è imperdonabile per l’economia, per la cultura, per la socializzazione, che la banda consente a centinaia di ragazzi soprattutto nei paesi sperduti. Riccardo Muti diceva che se uno impara a suonare in una banda, impara a stare nella società. C’è poi un altro aspetto. Io insegno in conservatorio e il 70% dei ragazzi che suonano i fiati, vanno poi a suonare in una banda che è l’unica istituzione che li accetta e gli da la possibilità anche di guadagnare qualche soldo. Le bande dovrebbero essere protette, disciplinate, è un mondo enorme, ma è anche una battaglia politico-culturale.
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